Storie di emigrazione, una mattina con il vestito buono sono partito per il nuovo mondo

21 luglio 2023 | 08:58
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Storie di emigrazione, una mattina con il vestito buono sono partito per il nuovo mondo

“La mattina di buon’ora indossai il mio vestito nuovo e partii per un nuovo mondo”: 1909 – diario di un emigrante. Un altro appuntamento con la rubrica I Cinturelli.

I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, il contributo di Dino Di Vincenzo.

A fine estate del 1908, all’età di quindici anni, scrissi a mio fratello Paolino che già stava in America, per chiedergli di aiutarmi ad emigrare. Mi rispose dopo circa un mese. Un paesano stava tornando dall’America per una visita ai genitori di Caporciano. Sarei potuto tornare con lui in Pennsylvania (Stato vicino a quello di New York).
Il paesano, Pancrazio, tornò. Mi disse che sarebbe ripartito a primavera: quella era la stagione migliore per trovare lavoro.

emigrazione, i cinturelli

Pieno di gioia, mi apprestai a trascorrere i mesi mancanti per organizzare i preparativi. Informandomi presso altri paesani, feci le pratiche di emigrazione e il passaporto. Mio padre non poteva aiutarmi molto. A fine novembre, ultimati i lavori dei campi, come ogni anno, partì per Velletri, vicino a Roma, dove molti caporcianesi trovavano lavoro durante la stagione invernale. Tornò alla fine di febbraio.  L’ultimo giorno dell’anno, come sempre, si teneva a Castelnuovo la fiera di S. Silvestro. In quell’occasione, chi non l’aveva ancora fatto, vendeva lo zafferano (che era l’unica fonte di soldi per le famiglie) raccolto a novembre. Nella fiera, di solito, vicino al banchetto del commerciante di zafferano si poneva quello dell’esattore delle tasse, anch’esso di Caporciano. E dopo aver pagato la “fondiaria” se avanzavano i soldi, si poteva acquistare altri beni
necessari.
Anche mia madre si era recata alla fiera. Aveva venduto lo zafferano, pagato le tasse e con 4 lire comprò della stoffa con cui mi confezionò il vestito che avrei portato in America.
Venne il mese di marzo del 1909 e poco prima di Pasqua arrivò il giorno della partenza. Il gruppo di Caporciano e Bominaco era composto di ventuno uomini e una donna. La mattina di buon’ora indossando il mio vestito nuovo, salutai i miei genitori che emozionati e piangenti, non riuscirono a dirmi una sola parola. La comitiva parti per la stazione ferroviaria dell’Aquila sopra a tre carretti. Arrivammo poco prima di mezzogiorno. Il biglietto fino alla frontiera francese (Modane) mi costo 18 lire e sessanta centesimi. Era la prima volta che prendevo il treno. Finché la luce del giorno lo permise, rimasi tutto il tempo a guardare dal finestrino le campagne, i paesi e le città che il treno attraversava. Il viaggio era lungo e allora con una piccola colletta, comprammo un mazzo di carte per ingannare il tempo. Tra Torino e Modane, mentre in due giocavamo a scopa, entrò nel vagone una guardia che provocò una corrente d’aria e alcune carte s’incastrarono irrimediabilmente nella porta.
Il treno imbucò una lunga galleria (del Frejus) e all’uscita ci trovammo in Francia. La prima parte del viaggio era terminata.
Prendemmo il nostro bagaglio una piccola valigia e una bisaccia con le cose da mangiare – e sotto la guida di Pancrazio, tutti insieme andammo a sbrigarle altre pratiche in un’agenzia di navigazione per acquistare il biglietto per del vapore (ferry boat).
L’agenzia di navigazione ci sottopose tutti a visita medico sanitaria e ne scartò uno che dovette tornare indietro. Ci procurò anche l’alloggio per la notte. Poi acquistammo i biglietti del treno che, attraversando la Francia, ci avrebbe portati fono al porto d’imbarco di Le Havre in Normandia. La giornata a Modane fu chiusa con una bella mangiata in trattoria.
La mattina dopo alle otto, Pancrazio, con una certa apprensione, ci riunì tutti nello stesso vagone del treno e partimmo. Noi, i più giovani, passammo gran parte del tempo incollati ai finestrini a osservare le pianure della Francia. Il tragitto fu lungo. Quando mi prese la stanchezza, mi sedetti al mio posto. Esaurita la curiosità per le tante novità che stavo vivendo, mi assalì la nostalgia per i genitori e per il paese che avevo lasciato così giovane per un altro mondo. Mi coprii il volto per nascondere agli altri le lacrime. Mi tornarono in mente tutte le fatiche e le ingiustizie che era¬vamo costretti a subire nel paesello da parte dei padroni parassiti che sfruttavano i contadini facendo mancare loro solo la frusta! L’estate precedente il raccolto del grano era stato buono, ma alla povera gente avevano distribuito come salario solo patate e granoturco.
Ma nonostante tante privazioni e sofferenze i miei genitori non mi avevano fatto mancare nulla d’essenziale, (un paio di scarpe e un abito decente) legate con uno spago, le portavo appese al collo per non rovinarle!
Intanto il viaggio in treno era interminabile.
Finalmente, annunciato da un paesano che aveva già percorso quel tragitto, intravedemmo il porto di Le Havre e il traghetto La Provence: immenso, enorme, mai pensato che poteva essere così grande benché mi fosse stato già anticipato da Pancrazio. Quando vi fummo vicini, ebbi una certa paura di quel colosso di ferro! Sulla banchina, all’ombra della nave, rimanemmo a lungo in fila: circa 3.000 emigranti provenienti da tutta Europa.
Prima di salire sul bastimento, mi si avvicina pancrazio per comu¬nicarmi che lui sarebbe dovuto salire su un’altra nave per seguire l’unica donna del gruppo, Lucia di Carapelle, che era stata imbarcata lì. Benché io fossi minorenne e avessi solo sedici anni e forse avrei avuto più bisogno d’aiuto di Lucia, mi restituì i documenti e i soldi che i miei genitori gli avevano affidato e mi salutò. Mi sentii triste e un po’ perso! Ma dopo il primo smarrimento salii sul piroscafo con altri paesani, ci sistemammo in un ponte e dopo un lungo fischio, la nave si mosse.
Sul vapore ci servirono il primo pasto: seduti a tavola, cibo abbondante per tutti e vino nero come il carbone (eravamo tutti abituati al vino rosatello e aspro di Caporciano), fummo tutti pervasi da allegria e così, dopo tante emozioni, andammo a dormire. La mattina successiva la sveglia suonò per tutti alle sei e poco dopo, annunciata dal suono di una campanella, fu servita la colazione: pane, burro, marmellata e una buona tazza di latte e caffè … il tempo era ingannato salendo sul ponte principale e veder acqua e cielo, cielo e acqua! In una grossa stanza si fumava, si giocava a tombola o a carte. La solita campanella che avevamo imparato subito a riconoscere annunciava il pranzo che era servito a mezzogiorno; riempiendo un foglio, potevamo addirittura scegliere il menù del pasto successivo. Un trattamento da gran signori.
Per tre giorni mangiammo e bevemmo come non c’era mai capitato. Poi la nave incontrò il mare mosso e per due giorni il mal di mare presi il sopravvento su molti di noi. Finalmente tornò il mare calmo. Ormai andavamo su e giù per la nave come se fossimo marinai. Dopo sei giorni di navigazione, a un certo punto sulla nave rimbalzò un grido: terra, terra. Era in realtà la lanterna posta sulla sommità della statua della Libertà. I marinai ci invitarono ad andare a dormire, prima di trentasei ore non saremmo arrivati! Finalmente il giorno dopo attraccammo al porto di New York Fu allora che sentii la mancanza di Pancrazio, mio unico punto di riferimento. Tuttavia mi resi ben presto conto che le nostre azio¬ni erano stabilite tutte dalle autorità locali. Lunghe file e visite mediche interminabili, da un corridoio all’altro. Da un reparto all’altro. (E’ l’isola di Ellis Island).
Ci ritrovammo alla fine in un grosso salone. Un anziano m’informò che eravamo ormai liberi in America! Era il 9 aprile 1909.
Fuori dagli uffici del controllo sanitario altri emigrati che parlavano l’Italiano vendevano un pacco viaggio che pagai 5 lire: conteneva due salami, quattro arance, una pizza e due pacchetti di biscotti.
Un ultimo sguardo alla Statua della Libertà e ci fecero dirigere verso i treni. Il gruppo dei caporcianesi iniziò a salire in treno presentando il biglietto al controllore fermo sulla porta d’ingresso. Quando toccò a me, mi fermò, mi disse poche cose che non capii e mi fece aspettare. Intanto il convoglio con tutti i miei compaesani si mosse, affacciati dai finestrini, mi salutarono con i fazzoletti e pian piano, dopo una curva, il treno scomparve.
Rimasi solo. Avevo solo sedici anni e per quanto mi facessi coraggio, fui assalito dallo sconforto e da una tristezza dentro che m’impedì per un po’ di reagire. Ripresomi, tirai fuori la busta della lettera che mesi prima mi aveva scritto mio fratello Paolino, sul retro c’era il suo indirizzo. Lo mostrai agli addetti alla stazione riconoscibili da un particolare copricapo. Mi tranquillizzarono facendomi capire che avrei dovuto aspettare un altro treno di lì a poco. Dopo mezz’ora infatti salii sul treno: niente a che vedere con i treni che avevo preso in Italia e Francia. I sedili avevano l’imbottitura con le molle, l’ambiente era arredato con tappezzeria di qualità, tutto sembrava curato. Mi compiacqui, l’America era veramente ricca. Ormai con me non c’era più nessuno che parlava italiano, si era fatto notte e così, e così, comodamente sdraiato sulle poltroncine del treno, mi addormentai.
Un controllore mi fece scendere a Filadelfia, mi condusse in una lussuosa sala d’aspetto finché m’indirizzò verso un altro treno. Ave¬vo il biglietto sempre bene in vista, spillato sul bavero della giacca. Ogni controllore che passava lo guardava e, con una pacca sulla spalla o uno sguardo, mi rassicurava sul percorso. In una fermata di una stazione, salì un giovane che occupò il posto davanti a me.
Era italiano e ne fui molto contento. Mi controllò anche lui il biglietto e l’indirizzo sulla busta di mio fratello. Prima di scendere mi comunicò che fra non molto sarei arrivato anch’io. Allora mangiai qualcosa dal cestino comprato il giorno prima. Non era granché.
Subito dopo , un controllore mi si avvicinò e, sorridendo, mi fece capire che sarei dovuto scendere di lì a poco. Presi la valigia e la bisaccia e mi avvicinai alla porta.
Quando il treno si fermò, confrontai il nome della località indicata sui cartelli con quello che avevo scritto sulla busta di mio fratello. Coincideva. Scesi. Era il giorno di Pasqua.
Mi aspettavo Paolino; attesi che tutti i viaggiatori sfollassero, ma non vidi mio fratello. Mi ricordai allora che quando ero sbarcato a New York lo avevo avvisato con un telegramma. Ma era il giorno prima di Pasqua e così lui probabilmente non lo aveva ancora ricevuto.
E così mi ritornò in mente che quella mattina nel mio paesello c’era stata la bella funzione religiosa della mattina di Pasqua. Era la prima volta che non vi partecipavo!
Mi decisi quindi di chiedere informazioni, ma nessuno riusciva a capirmi. Mostrai allora l’indirizzo, dove sarei dovuto andare a tutte le persone. Finalmente un uomo mi accompagnò in un negozio, erano siciliani. Dentro vi era una donna che non seppe aiutarmi. Mi disse di aspettare il ritorno del marito che certamente avrebbe saputo aiutarmi. Dopo circa mezza giornata arrivò il siciliano. Mi fece depositare i pochi bagagli nel suo negozio e m’indicò la strada per raggiungere mio fratello.
Uscii dal villaggio, incontrai una grossa fabbrica. Chiesi a qualcuno, ma nessuno mi capiva. Andai oltre. Trovai una grossa miniera di carbone. Un operaio su un carrello pieno di carbone stava uscendo in quel momento. Era polacco, io non capii lui. Lui non capì me. Nel frattempo uscì un altro minatore con la faccia più scura di un nero. Sull’elmo che indossava, aveva ancora la fiammella a olio accesa. Il polacco lo chiamò. Era di Carapelle. Conosceva mio fratello e mi disse che stava lavorando. Mi avrebbe comunque portato subito da lui. “mia moglie Lucia, mi chiese, dov’è”? Capii così che era lui il marito di quella Lucia per cui Pancrazio mi aveva lasciato solo!
Poco dopo finalmente abbracciai mio fratello Paolino.
Cominciò così la mia avventura americana.

NdR. L’autore di questo racconto, si chiamava Berardino, era nato a Caporciano nel 1893. Rimase in America fino a quando non dovette tornare in Itaia per la prima guerra mondiale. Il suo servizio militare durò sei anni. Per quest’avventura, fu successivamente nominato “Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto”.
Dopo la guerra tornò in America, dove fece una piccola fortuna. Con la grande depressione del 1929 perse gran parte dei suoi risparmi. Deluso dal sogno americano, ritorno definitivamente in Italia. Raccontò tutta la sua vita nelle sue memorie che finì di scrivere pochi mesi prima di morire a ottanta anni.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 29 del periodico I Cinturelli, un progetto editoriale nato nel 2010 da un’idea di Dino Di Vincenzo e Paolo Blasini. I Cinturelli, disponibile online e cartaceo, racconta la storia, la cultura, le tradizioni e le leggende del territorio.