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Le nuove stanze della poesia, Umberto Fiori

10 agosto 2023 | 08:59
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Le nuove stanze della poesia, Umberto Fiori

Umberto Fiori: Autoritratto automatico. Il ritratto del poeta e musicista per l’appuntamento con la rubrica a cura di Valter Marcone.

Umberto Fiori con la silloge pubblicata da Garzanti “ Autoritratto automatico “ è uno dei cinque finalisti della prima edizione del Premio Strega di poesia .Un riconoscimento per la poesia che si aggiunge alle varie iniziative del Premio Strega nato appunto settanta anni fa e divenuto frattanto il più ambito e prestigioso riconoscimento letterario italiano,

Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949. Dal 1954 vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Negli anni ’70 ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy Six, gruppo storico del rock italiano. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi (per il quale ha scritto due libretti d’opera, Scene e Ballata, e numerosi altri testi), con il fotografo Giovanni Chiaramonte e con i videoartisti di Studio Azzurro. E’ autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani; del 2013 il cd-dvd Benvenuti nel ghetto, con gli Stormy Six e Moni Ovadia. Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002), Voi (2009) e fra gli ultimi Il conoscente (2019) e Autoritratto automatico (2023).
Sul sito della casa editrice si può leggere questa breve presentazione della silloge di Fiori : “Camminando per la città ci si può ancora imbattere nelle cabine per fototessera. Sono ormai oggetti desueti, relegati in qualche angolo di stazione ferroviaria, o poco più. Si tratta però, a ben vedere, di oggetti peculiari di grande suggestione, fuori dal tempo, quasi «magici», dove si può entrare e isolarsi per un attimo chiudendo la tendina. E lì fotografarsi, avere un’immagine puntuale di sé stessi in un preciso istante. Affascinato dall’intreccio fra elemento soggettivo e dimensione impersonale dell’autoscatto automatico, Umberto Fiori, poeta tra i più riconoscibili e autorevoli della nostra letteratura, ne ha subito intuito il potenziale artistico e a partire dal 1968, per oltre cinquant’anni, ha scattato e raccolto i propri autoritratti in quella che oggi è una vera e propria collezione, stravagante quanto densa di implicazioni per una riflessione anche filosofica sui temi della conoscenza individuale.
Le poesie raccolte in questo volume, tutte inedite, sono dedicate a quella che l’autore definisce una «curiosità privata», un «esercizio narcisistico» che tuttavia si configura prima di tutto e con originalissima energia espressiva come ricerca del proprio volto più autentico e come esplorazione abrasiva del sé che dice e racconta, senza concessioni e senza indulgenze. Autoritratto automatico, libro ricco quanto imprevedibile, acceso da innumerevoli elementi magnetici per il lettore, allestisce una sorta di autobiografia poetica che è al contempo una riflessione sull’identità e sul carattere mutevole ed effimero dell’essere umano.”
Una «curiosità privata», un «esercizio narcisistico» come lo definisce lo stesso autore questo insieme di versi ispirato alla singolare collezione di autoritratti dell’autore stesso, rigorosamente scattati nelle macchinette per fototessera dal 1968, per più di cinquant’anni fino a oggi.

FOTO TESSERA
Inverno. Buio, nebbia. Fiati, motori.
In giro, poche ombre. Sul piazzale
dove si affaccia
la Camera del Lavoro
splende, sola, la scatola
della foto automatica.
Le tendine scostate, vuota, in attesa:
come nella navata di una chiesa
l’armadio bruno del confessionale.
MM
Sotto la piazza,
in fondo alle scale mobili,
svoltato l’angolo, dopo l’edicola e il bar
giorno e notte sta accesa la capanna.
Qui porta il pellegrinaggio.
Scorre la tenda grigia.
Ruota il sedile. Sparisce la banconota.
Anno per anno, nel buio al di là del vetro
torna il miraggio dell’identità.
COLLEZIONE
Venire bene. Questo si vorrebbe.
Ma là dietro, nella cabina,
non c’è un dito a scattare,
un mezzo sorriso complice, la parola
che stimola e rassicura.
Non c’è mestiere, arte, volontà.
La faccia è sola, nel vetro.
E’ di fronte a una cosa senza pupille,
senza fiato, che qua
uno si mette in posa:
guance e fronte belle distese,
occhi attenti, espressione naturale.
E se poi uno scatto è venuto male
(palpebre scese, ghigno da ubriaco)
il patto è: tenerlo. La collezione
scarti non ne prevede.
Perché dalla nostra faccia –questo ti insegna
ogni volta l’oracolo-
difese non ce ne sono.
TEMPO
Colli che si raggrinzano nel colletto,
capelli sempre più grigi, poi bianchi,
occhiaie molli da lèmure, guance cascanti:
era questa l’idea, fin dall’origine.
Fissare il cambiamento, l’identità.
Contemplarli da fuori,
come in certi documentari il fiore
che di colpo si apre
con lo sprazzo di un fuoco d’artificio.
Tutto previsto tu dici, tutto scontato:
il lavoro del tempo
(e della vita, e della gravità).
Ma quando poi
uno si è visto là
tutto insieme, e si sfoglia e si risfoglia
anno per anno, scatto dopo scatto,
il gioco rischia di cambiare aspetto.
Tu che non sei il soggetto
di questo crollo, tu che non hai collo
né capelli, né età,
segui tranquillo il cammino
delle immagini, séguilo
come gli spasmi di un insetto
nella tela del ragno,
come si guarda un naufragio
dall’alto di una montagna.
FAVOLA (NON-)
Tira la tenda, regola il sedile,
infila le monete nella fessura,
si trova ancora riflesso nel vetro, Narciso.
Non è a un laghetto, fra le tamerici,
sotto un cielo turchino, che si affaccia.
La macchina non ha profondità,
né superficie.
A chiamarlo dal buio delle onde
non è un viso (lucente, tremolante
d’ombre e misteri), non è un volto: è
la faccia, la sua faccia.
Di questo, si dovrebbe innamorare?
Mah. Vediamo. Ogni volta lo specchio
riflette la domanda.
Passano gli anni.
Bianco e nero, colore.
Non si bacia Narciso, non affoga,
non si trasforma in un fiore:
diventa vecchio.
FOTO-RICORDO
A spingermi là dentro,
sotto la luce della scatola,
era un ricordo.
Una forma imprecisa, risaputa,
un’ombra che premeva
nella mia testa
come il sogno che resta lì per un attimo
quando ti svegli:
nei dettagli non sai ricostruirlo
ma sai bene com’era, sei certo
di averlo fatto.
Lineamenti, colori, connotati:
scatto per scatto spiavo la traccia
che potesse guidare fino a quelli
della mia vera faccia.

Insomma, dalle poesie che ho trascritto un singolare incontro con una identità che in un tempo di anomia riesce a circoscrivere il senso del proprio essere al mondo. Noi siamo in queste poesie perchè in un mondo e in un tempo in cui le immagini, considerata la possibilità a lunga indagata della loro riproducibilità tecnica ,ci permettono appunto di stabilire dei contorni, dei limiti . Quell’apparecchio fotografico in una cabina in cui ci si può mettere in posa ci restituisce il nostro volto su carta, non più allo specchio . Un volto che possiamo gradrare continuamente e che non muterà nei secoli tranne che ingiallirsi con la carta .

Davide Rondoni da par suo scrive su rivistaclandestina.com: “La replica, la ripetizione, quel che in poesia si chiama iterazione e che appartiene a tutte le grandi tradizioni verbali, mantra o salmi o canzoni popolari, avvia una possibile forma di ermeneutica del trascendente nell’immanente? Queste e altre considerazioni sorgono in me alla lettura del bizzarro libro di poesie dell’ottimo Umberto Fiori. Nasce il libro da una sua strana “mania”: l’aver raccolto negli anni, più di cinquanta, le fototessere del suo volto. Lo ha fatto scattando in giro per l’Italia, in quelle macchinette che di volta in volta chiama “astronave”, “confessionale” o “cabina elettorale”. La sua mania è nata in anni di grande impegno politico ma non, precisa l’autore, come atto del “privato” in opposizione al politico stesso, bensì come bizzarria, come esito di una conversazione tra lui quindicenne (!) e il fratello maggiore su un saggio di P. Bourdieu sulla fotografia e sui suoi usi come arte sociale. Chi come me conosce Fiori da tempo, spero con reciproca stima, sa del suo lavoro con grandi fotografi, come il comune amico Giovanni Chiaramonte. Ma non bastano certo le osservazioni sulla natura estetica neutra dell’operazione, sulla curiosità autobiografica (“nonostante la santità e la maestà del Soggetto collettivo io restavo io”) e nemmeno le acute osservazioni sulla sciatteria burocratica e sul valore della smorfia, a giustificare la eccezionale, maniacale raccolta. E il primo a saperlo è il medesimo Fiori che intende questo materiale come materiale di una ricerca, ma di cosa? Si deve alla arguzia tra demoniaco, poetico e editoriale di Antonio Riccardi, l’idea di spingere Fiori a affrontare la questione con la poesia, sua arte primaria dopo i trascorsi di rocker impegnato. E ne è venuto un libro al tempo stesso agile e grave, ironico e fulminante, dove si trova la ben consolidata voce di Fiori ad affrontare una questione (il volto) già ben presente nella sua opera. Solo che questa volta il volto è solo il suo (tranne qualche intromissione di amici e parenti – e le tre bellissime poesie finali per l’Orientalina) e la sua iterazione, la sua ripetizione. Il libro non risponde al perché – se mai fosse possibile – della strana operazione autocollezionista, semmai allarga la domanda, la indaga, la escrucia. E tornano in modo vivido i temi ricorrenti della sua poesia. Quel “presentarsi” di qualcosa, di uno che è “intensamente qualsiasi”. Quella obbedienza non cieca ma visionaria – sia che osservi un ruscello, sia che rammemori una “zia” sia che osservi un amico o un’amata – a un “dito”.