Montagna

Gran Sasso, 450 anni dalla prima scalata: l’impresa di Francesco De Marchi

Il 19 agosto 1573 la prima scalata del Gran Sasso a opera di Francesco De Marchi: "Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva ch’io fussi in aria, perché tutti gli altissimi monti che gli sono appresso, erano molto più bassi di questo".

Il 19 agosto 1573 la prima scalata del Gran Sasso a opera di Francesco De Marchi: “Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva ch’io fussi in aria, perché tutti gli altissimi monti che gli sono appresso, erano molto più bassi di questo”.

“Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti”. A scriverlo è direttamente Francesco De Marchi, ingegnere militare nato a Bologna, ma conquistato dal Gran Sasso d’Italia, tanto da volerlo scalare per la prima volta. “Così – racconta nel suo rapporto – andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio, potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorché questo castello sia il più presso verso l’Aqquila. Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camocce che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco Di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva più tornare”.

Sulla vetta, la meraviglia: “Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tirreno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico”. Interessante la citazione che il De Marchi fa del Ghiacciaio del Calderone, riportata da Alessandro Clementi: “Tutti quelli che non sono stati alla cima dicano che vi è una Fontana in cima. Dico che non vi è Fontana nessuna, ma che vi è bene un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente”. Clementi continua la ricostruzione: La comitiva raggiunse a cavallo Campo Previti (Campo Pericoli) da dove iniziò l’ascensione, più volte costretta a tornare indietro e tentare sentieri più praticabili. Dopo 5 ore e 15 minuti, con grandissima fatica e impegno, gli scalatori raggiunsero la cima del Gran Sasso, seguendo un percorso tale che “l’huomo non si puol dare aiuto l’uno all’altro perché bissogna stare attaccato alla pietra con le mani, massima quando si è appresso alla sommità un terzo di miglio, dove la pietra è fragilissima”, come si legge nella cronaca. “Dico se l’ huomo cadesse che vi son molti luochi dove verrebbe ducento e più bracci per aria. Poi troverebbe punte di sassi e d’ivi potteria cadere altro tanto, come fece un frate l’anno 1572, che casco et andò in pezzi”, il macabro avvertimento. La grande fatica fu ripagata dal meraviglioso spettacolo che si prospettò ai loro occhi una volta raggiunta la cima poiché, come scrive ancora De Marchi: “Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva ch’io fussi in aria, perché tutti gli altissimi monti che gli sono appresso, erano molto più bassi di questo”.

Tre anni dopo, a L’Aquila, moriva il primo scalatore del Gran Sasso, con quell’impresa a coronare la sua vita avventurosa.

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