Storie

Alzheimer a 43 anni, il dramma di Paolo Piccoli e della sua famiglia

"Tutti hanno bisogno di una speranza". Il dramma di Michela e di suo marito Paolo Piccoli, malato di Alzheimer a soli 43 anni. "In Italia i caregivers sono abbandonati".

Michela Morutto e Paolo Piccoli erano una coppia come tante: una vita solida, due figli meravigliosi, Mattia e Andrea, una bella casa vicino Venezia, nel piccolo centro di Concordia Sagittaria. Nel giro di poco tempo questa bolla d’amore è stata stravolta, spazzata via da una sentenza che non lascia scampo: Paolo, l’amato compagno di vita, a soli 43 anni, è stato colpito da una forma di Alzheimer precoce che, dal 2016 a oggi, in pochissimo tempo, ha cancellato ricordi e abitudini, trasformando il marito, il papà, l’uomo, in un estraneo.

Oggi Michela Morutto è moglie, madre e soprattutto caregiver di Paolo Piccoli che di anni ne ha 51 ed è praticamente irriconoscibile: il declino è stato inevitabile, l’Alzheimer ha ‘mangiato’ tutto, vitalità, sorrisi, quotidianità, ricordi. La sua storia è cambiata ed è quella di una donna sola che lotta ogni giorno con la burocrazia che, troppo spesso, abbandona e dimentica le figure degli assistenti familiari. Impossibile capire quanto sia difficile la sua posizione, con un marito da accudire, ricoverato in una Rsa, una patologia grave e invalidante come l’alzheimer con cui confrontarsi, una scelta obbligata – quella del ricovero – sotto tanti punti di vista sia per la sicurezza del marito che per consentire ai bambini di avere un minimo di normalità. Una scelta anche molto onerosa, visto che la 104 copre appena le spese di mantenimento e degenza. 

Il 21 settembre scorso si è celebrata la Giornata mondiale dedicata all’Alzheimer: un momento di approfondimento e sensibilizzazione, soprattutto nei confronti della diagnosi precoce che, attualmente, resta l’unico strumento capace di poter attivare le cure per mantenere attivi i parametri cognitivi. Una diagnosi precoce che nel loro caso è mancata, a causa della giovane età dell’uomo, nonostante ci fosse stato un precedente in famiglia.

Quella di Paolo Piccoli è una storia singolare e terribile: un terremoto fisico ed emotivo che ha distrutto un intero nucleo familiare dove ci sono anche due bambini costretti a diventare adulti troppo in fretta. Perchè quando si parla di Azheimer si è soliti riferirsi a pazienti anziani che una vita l’hanno vissuta e che restano intrappolati nei loro ricordi, tornando ad essere bambini. Paolo è tornato bambino troppo in fretta, troppo presto: per lui e Michela non sarà più possibile costruire dei ricordi e un vissuto e, ogni volta, a ogni visita, a ogni ricovero, si ricomincia da capo. Paolo non c’era e non ci sarà quando i bambini realizzeranno alcune tappe della loro vita: Paolo non potrà gioire per la patente, non parteciperà all’ansia per il diploma, alla laurea, perchè anche se magari potrà esserci fisicamente, se le condizioni di salute lo consentiranno, da tanti anni, la sua testa è confinata ‘altrove’.

“In questo momento Paolo è al sicuro: curato, accudito da persone competenti, stimolato, supportato. Io, per lo Stato non sono più il suo caregiver, ma in realtà sono sola e continuo a lottare, contro i mulini a vento, perchè da questo tipo di malattie non esci vincitrice. Mi sono annullata, annientata, ho fatto il possibile per mantenere in piedi quella famiglia che abbiamo costruito con impegno, gioia, sacrifici. I nostri bambini sono cresciuti troppo in fretta, ed è impensabile dovergli spiegare che il papà non li riconoscerà più e che sarà sempre peggio”, spiega Michela, commossa, sentita dal Capoluogo.

paolo piccoli

Michela e Paolo si sono conosciuti da ragazzi: si sono sposati, è nato Mattia, poco dopo è arrivato Andrea. Paolo era un vigilante, si occupava di sicurezza in un supermercato: un lavoro fatto di precisione e attenzione che gli regalava tante gratificazioni. Michela lavora da sempre in uno studio di commercialisti: le cose andavano bene, i progetti per il futuro erano tantissimi…Un viaggio, una bella cena, magari anche una macchina nuova, continuare a tenersi per mano, come fanno in tanti e aiutare i figli a diventare grandi.

Poco prima che arrivasse Andrea, Paolo aveva cominciato ad avere atteggiamenti strani: era un uomo buono, solare, positivo. All’improvviso si chiudeva in se stesso, rispondeva male alla moglie senza motivo, aveva degli scatti d’ira che a Michela cominciavano a piacere sempre meno. “Da un giorno all’altro mi sono trovata in casa un estraneo – ricorda – Paolo che mi aveva fatto innamorare era scomparso, continuava a incolparci delle sue dimenticanze, accusava i bambini di avergli rubato o nascosto le chiavi, un libro, qualunque cosa. Io ero incinta del nostro secondo figlio, ero preoccupata, tanto da aver pensato di lasciarlo. Sembravano piccole cose, alla fine l’ho convinto e abbiamo fatto una serie di accertamenti, ma nessuno ci aveva mai parlato di declino cognitivo. Anzi, quando provai a parlarne io la prima volta ci è mancato poco che mi prendessero per matta”.

Nel 2014, Paolo aveva iniziato un lungo iter diagnostico per comprendere i motivi dei suoi continui malesseri. Data la giovane età, nessuno all’inizio aveva pensato a una forma di demenza senile. Le diagnosi erano state le più disparate: ansia, depressione, stress. Un ritardo imperdonabile. 

Ma niente: nonostante le cure, Paolo stava sempre peggio e con lui tutto il nucleo familiare. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, esami più approfonditi portarono alla diagnosi definitiva: Paolo aveva una forma di Alzheimer presenile, come suo padre, morto alcuni anni prima, a soli 58 anni, e assistito fino all’ultimo proprio dal figlio. Dalla diagnosi per la giovane coppia è iniziato un vero e proprio pellegrinaggio tra ospedali, ricoveri, false speranze: a causa della sua giovane età, Paolo è stato escluso da un trial con un farmaco sperimentale e nel frattempo la malattia “fluttuava”. “Eravamo sull’altalena: per settimane la situazione sembrava stabile, poi c’era un repentino peggioramento e si ricominciava da capo. I medici ci avevano detto quanto fossero importanti gli stimoli, lo svago, la socializzazione”. 

Con la diagnosi cominciarono anche i problemi legati agli iter burocratici per essere riconosciuti come malati e soprattutto caregiver. “Non è stato facile destreggiarsi tra gli uffici della pubblica amministrazione, aprire le pratiche per l’invalidità, ottenere un po’ di ascolto”, spiega Michela che, ricordando quei momenti, viene sopraffatta da un senso di sconforto e abbandono aggravato durante il periodo del lockdown. “Le uniche persone disposte a darci una mano sono stati i miei genitori, ma sono stata costretta a prendere un lungo periodo di aspettativa dal lavoro perchè mio marito andava lavato, vestito, aiutato a mangiare come un bambino. Ci siamo trasferiti vicino la mia famiglia, io mi occupavo di Paolo e mia madre dei miei bambini che nel giro di poco sono diventati i caregivers del loro papà ”.

“Se penso adesso alle litigate per le sue distrazioni, così almeno pensavo che fossero, sembra quasi che sia passata una vita intera e non ‘solo’ 10 anni. Quando ancora era tra noi, con Paolo abbiamo deciso insieme di raccontare la nostra storia, umana, semplice, terribile, perchè sono tantissime le famiglie che vivono in uno stato di isolamento conseguente all’incapacità delle istituzioni di assicurarci la giusta assistenza”.

A cavallo del lockdown le cose sono precipitate di nuovo, e questa volta senza soluzione. “Con 2 bambini e una malattia per la quale non c’è cura efficace, le cose in casa erano diventate difficili. Paolo era irascibile, accusava i nostri figli di averlo picchiato, piangeva senza motivo. Non potevamo avere ospiti a casa, non potevo andare con loro al cinema o al luna park perchè alcuni ambienti per un paziente affetto da Alzheimer sono fonte di grande stress”. L’organizzazione quotidiana era diventata molto difficile e la serenità dei bambini ne stava risentendo. “All’inizio abbiamo avuto come riconoscimento la sola 104, ma senza accompagnamento, quindi, il mio lavoro, era l’unica fonte di sostentamento per tutti. Poi bisognava fare le file al cup, prenotare visite, day hospital, c’era una casa da mandare avanti, i libri per la scuola da compare, le necessità di questi due ragazzi che stavano vivendo un’infanzia indegna. Per fortuna ho potuto contare sui miei genitori per la gestione dei bambini, ma la situazione è degenerata durante il lockdown”.

L’interruzione dei rapporti sociali, la mancanza di stimoli, di incontri, l’impossibilità di fare sport, cantare nel coro, alcune di quelle attività che rendevano felice Paolo e sgravavano per qualche ora Michela, l’isolamento seppur necessario per evitare il contagio, per questo giovane uomo e per chi pativa e patisce come lui un problema come l’Alzheimer, sono stati la mazzata finale. “Ha iniziato a scappare, aveva delle allucinazioni continue, non sapevo come fare e non volevo e non potevo chiuderlo a casa a chiave”. Vicino casa, a 8 km, la famiglia ha trovato una Rsa immersa nel verde dove oggi Paolo vive, viene accudito e riceve la visita dei suoi cari.

“Posso andare quando voglio utilizzando la legge 104. Non sempre mi riconosce, delle volte però capita che mi chiami per nome e lì, per un attimo, rivedo il mio Paolo e quel ‘ciao Michela’, quando mi vede, è un tuffo al cuore. I malati di Alzheimer non sono quegli anziani che fanno vedere in tv, che giocano con la palla o con la bambola. Ci sono altri casi come quello di Paolo, ma sono circoscritti, quindi non esistono strutture adatte e oggi lui convive con persone di età molto lontana dalla sua e tutto questo sicuramente non lo stimola. Ma in Italia almeno non esistono strutture ad hoc e siamo stati noi a doverci adeguare. I nostri figli soffrono molto, si rendono conto che loro per il papà non esistono più, sono pressoché degli estranei. Come fai a spiegare a un bambino qual è ancora il mio Andrea che non c’è una soluzione? Mattia ora è grande, ma come si sente quando vede gli amici con il papà giocare e lui per vedere il suo deve andare in una casa di riposo? È dura per tutti noi, non so cosa accadrà domani e non sono come alleviare le sofferenze dei nostri ragazzi”.

Perchè alla fine, in un contesto del genere, con una diagnosi così impietosa, non è malato solo Paolo: ma tutta la famiglia. “Fisicamente sta ancora abbastanza bene, ma l’aspettativa di vita è un’incognita. Suo padre è morto a 58 anni, oggi mio marito ne ha 51. Con il Covid Paolo è peggiorato e noi siamo stati abbandonati definitivamente al nostro destino. La paura adesso è che i miei figli possano aver ereditato la patologia paterna. Per anni ho mantenuto Paolo e le sue cure solo con il mio stipendio e comincia a mancarmi la forza”.

La battaglia di Michela, Mattia e Andrea oggi, sapendo Paolo al sicuro, seppur lontano, solo fisicamente, è quella di tanti che faticano a trovare ascolto. “Non so se una diagnosi precoce avrebbe cambiato qualcosa, ma certo sarebbe stato diverso con un aiuto per assisterlo, percorsi meno tortuosi e difficili per avere la 104. Tutti hanno bisogno di una speranza. E parlarne mi aiuta anche a lenire il mio dolore, perchè se lo condividi in qualche modo lo ‘spezza’. L’aspetto positivo di questa vicenda è l’aver trovato spesso il supporto negli estranei, che non hanno potuto far altro che ascoltarmi e alleggerire il mio peso”. Michela ogni giorno racconta la sua storia anche su Facebook dove ha trovato tanta gente, da ogni parte d’Italia che le vuole bene.

paolo piccoli

Prima che le cose peggiorassero, quando Paolo stava ancora abbastanza bene, ha deciso, insieme a Michela di raccontare la loro battaglia. La loro storia familiare, il dramma che vivono da quasi 10 anni, è diventata un libro che non è frutto di nessuna fantasia: “Un tempo piccolo”, scritto da Serenella Antoniazzi e dedicato ai loro figli. Due anni fa invece, il primogenito Matteo, a soli 12 anni, è stato premiato con l’attestato di Alfiere della Repubblica, per l’assistenza costante e quotidiana nei confronti del papà.

Alzheimer precoce, l’importanza della diagnosi: ne parliamo con la dottoressa Roberta Bernardi del centro Creativamente dell’Aquila

Abbiamo chiesto alla dottoressa Roberta Bernardi, del centro Creativamente dell’Aquila, come sia possibile agire in casi come questi di Alzheimer precoce.

“Una diagnosi precoce permette di intervenire efficacemente e contrastare la patologia di Alzheimer per rallentarne il decorso. Oggi a disposizione abbiamo i biomarkers (o biomarcatori) che facilitano la diagnosi. Purtroppo, a causa degli elevati costi, questi vengono effettuati solo se c’è una familiarità alla malattia. Di routine, all’anamnesi clinica, vengono prescritti test neuropsicologici e test di imaging. Identificare un inizio di Alzheimer con sicurezza e intervenire tempestivamente con terapia farmacologica e terapia di stimolazione cognitiva assicura un decorso più lento della patologia e di conseguenza una vita più dignitosa per pazienti e caregivers. La speranza per Michela, Andrea e Mattia adesso è agire sui ragazzi che hanno una familiarità con la malattia. Intervenire subito potrà aiutare le generazioni future a intervenire precocemente”. 

 

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