Ultima chiamata, i nostri paesi in bilico tra scomparsa e rinascita

29 settembre 2023 | 10:38
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Ultima chiamata, i nostri paesi in bilico tra scomparsa e rinascita

Lo spopolamento delle aree interne, il problema dei piccoli borghi dell’Abruzzo interno Aquilano. Un altro appuntamento con la rubrica i Cinturelli.

I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, il contributo di Giulia Giampietri. I nostri paesi in bilico tra scomparsa e rinascita: il PNRR l’occasione da non disperdere.

La campanella è suonata. Non è quella dell’ingresso a scuola e neanche quella d’allarme. Piuttosto sembra quella dell’ite missa est con cui il prete congeda i fedeli. La campanella, nel nostro caso, è suonata a Calascio lo scorso 5 ottobre. All’indomani delle ultime elezioni, il Sindaco si reca in comune e non trova nessuno. Il comune è vuoto, non c’è l’ombra di un dipendente. La condizione del nuovo Sindaco ha destato scalpore e incredulità. Ma altro non è che una delle inevitabili conseguenze del fallimento delle politiche territoriali che si sono succedute nel corso degli ultimi decenni. Ovunque assistiamo allo stesso scenario: riduzione e invecchiamento della popolazione che pregiudicano la capacità di generare reddito di una comunità, determinando un progressivo e inesorabile assottigliamento delle reti di servizio, siano esse private o pubbliche. La difficoltà delle aree interne, rurali e montane, non è una questione locale e faremmo un grave errore se pensassimo di ridurla a questo. Da anni si è finalmente imposta come una grande questione nazionale. È sufficiente riflettere su alcuni dati per comprenderne la rilevanza e la complessità. Nelle montagne e nelle aree interne italiane vive una popolazione di circa 13 mln di abitanti: più del Portogallo, della Grecia e del Belgio. Inoltre, 2/3 del territorio nazionale è “presidiato” dai piccoli comuni. A 5694 comuni (su un totale di 8000) è affidata la più diretta responsa¬bilità della gestione di un vastissimo territorio. Responsabilità che da un lato deve fare i conti con la capacità operativa di questi piccoli comuni e dall’altro con le diverse culture/sensibilità degli amministratori locali.
La posizione marginale rispetto alle direttrici di traffico o la lontananza dai grandi poli di attrazione urbana, la bassa densità demo¬grafica, sono evidenti motivi di discriminazione che diventa poi disuguaglianza sociale.
Questo è l’orizzonte del nostro problema. Al suo interno agiscono diversi livelli di decisione politica. Ad iniziare da quello centrale (lo Stato) passando per quello intermedio (le Regioni) fino ad arrivare a quello locale (i Comuni). È dalla loro capacità d’interazione che si delineano gli effetti delle politiche sui territori.
Lo Stato centrale fornisce la cornice normativa-istituzionale e gli strumenti economici per affrontare la problematica. Fino ad ora, le scelte del legislatore nazionale, tranne rari casi come la Strategia Nazionale per le Aree Interne, non hanno fatto molta distinzione fra grandi e piccoli comuni, fra aree sviluppate ed aree depresse. I tagli lineari alla spesa pubblica, la c.d. spending rewiew, soprattutto in materia di personale con il blocco delle assunzioni, le regole in materia di appalti e lavori pubblici uguali a Roma come a Calascio, hanno dimostrato come sia stato fallimentare trattare questioni profondamente diverse in maniera uguale.

Il Sirente, crocevia di briganti

A questo approccio avrebbe potuto rimediare il livello intermedio. Le Regioni, potendo meglio interpretare i bisogni territoriali, avrebbero dovuto dare assetti operativi ed istituzionali adatti alla specificità di ciascun luogo. Purtroppo non è accaduto e, là dove ci sono stati tentativi in questa direzione, la gestione della politica ha fatto in modo che tutto degenerasse (si pensi alla triste fine delle Comunità Montane). In definitiva, l’intervento delle Regioni è stato poco incisivo e molto spesso caratterizzato dalla rincorsa al consenso (elettorale) immediato. Ora, però, siamo di fronte ad uno scenario completamente nuovo.

La pandemia insieme all’emergenza ambientale hanno spazzato via tutto quello che, per decenni, non solo qui ma nel mondo intero, aveva caratterizzato in negativo comportamenti singoli e collettivi. Ci è stato presentato il conto in maniera drammatica e violenta, inchiodando i decisori politici alle responsabilità delle proprie scelte e comportamenti.
Il governo ha dato una prima risposta mettendo a disposizione un programma nazionale di interventi, il famoso PNRR, con ingenti finanziamenti (stiamo parlando di un ammontare di risorse che fanno impallidire quelle contenute nel piano Marchall dell’immediato dopo guerra). Ha individuato gli ambiti di intervento demandando alle Regioni la possibilità di predisporre le azioni da mettere in campo. Analogo atteggiamento è stato assunto nei confronti dei Comuni che sono stati chiamati ad una forte assunzione di responsabilità, affidando loro risorse da utilizzare su progetti da essi stessi predisposti.

Riducendo, quindi, di molto la scala di osservazione arriviamo a noi. Se aggiungiamo ai fondi della ricostruzione post sisma 2009 (ricostruzione pubblica, privata e fondi per lo sviluppo) le risorse aggiuntive del PNRR (e in particolare quelle del fondo complementare per le aree terremotate 2009/2016) si capisce chiaramente che saremo inondati di denaro pubblico come mai prima d’ora. Questa condizione, però, deve richiamarci alla massima responsabilità. Siamo tutti di fronte ad una sfida che cambierà il futuro della nostra nazione insieme a quello dei nostri territori. La digitalizzazione, la rigenerazione urbana, la transizione ecologica ed energetica sono le linee di intervento strategico poste a base del Piano. Siamo pronti a raccogliere questa sfida? Abbiamo colto fino in fondo il significato e il senso delle scelte strategiche che sono contenute all’interno del PNRR? La politica locale ha compreso la dimensione territoriale a cui riferire la propria progettazione strategica? Davvero i nostri amministratori locali pensano che sia ancora efficace operare nel chiuso di quattro mura e decidere sul da farsi? È possibile immaginare una pianificazione che vada oltre il proprio orticello della buca sull’asfalto da richiudere o del cambio di una lanterna con la lampadina led per raccontare di aver fatto il nuovo piano delle infrastrutture o, peggio, la transizione energetica? È illusorio immaginare un coinvolgimento delle comunità nel dibattito delle scelte da operare? È possibile progettare un territorio in cui nasceranno nuove condizioni di lavoro per i nostri figli e le future generazioni? Sarà possibile legare gli imprenditori al destino di questi luoghi?

Sono le questioni di fondo su cui deve riflettere la politica locale se davvero vuole essere la vera protagonista. È richiesto un decisivo cambio di passo: cominciare a ragionare in termini di cooperazione comunale. Non solo ai fini della razionalizzazione dei costi e dell’aumento dell’efficacia dell’azione pubblica ma di una sfida più ambiziosa: quella della complessiva riorganizzazione dei propri territori sulla base di una pianificazione strategica di lungo periodo che si muova su progetti fortemente caratterizzati da contenuti innovativi. Ormai è chiaro che individuare le vocazioni economiche, gli interventi infrastrutturali, fornire i servizi essenziali di cittadinanza (scuola, sanità e trasporti) non è possibile se non a un livello sovra comunale e su una prospettiva di lungo periodo. Non si tratta di fare unioni o fusioni di comuni ma aprirsi a una logica di pianificazione che spazzi una volta per tutte la logica del campanile e si collochi su orizzonti temporali più lunghi, dove è messo da parte il consenso dell’oggi e prenda piena contezza la visione del futuro.
Su cosa lavorare? Non credo sia lontano dalla realtà immaginare le aree interne come laboratori dell’innovazione dove sperimentare, in piccolo, soluzioni che possano contaminare altri contesti territoriali. I nostri paesi possono diventare i luoghi dove è possibile avviare nuovi modelli di crescita che coniughino alti livelli di welfare e tutela ambientale. Si è finalmente compreso, dopo l’ubriacatura dell’urbanesimo senza confini, che bisogna mantenere le persone sui territori non solo per salvaguardare il patrimonio materiale (naturale e non) ma anche per non dissipare l’enorme patrimonio di identità, culture e storie che è la vera essenza dell’Italia, quello che ci rende unici nel mondo.
Oggi ci sono le risorse e forse anche in misura esagerata. Ci vogliono le idee. Bisogna mettersi a lavoro e chiamare al tavolo delle decisioni chi ha le competenze, la conoscenza dei problemi, la capacità di ascolto e di fare sintesi.
Mi fermo qui. Di cose da scrivere ce ne sarebbero ancora molte. Ho cercato di raccontare quello che è accaduto e quello che dovrà accadere. Servono impegno, serietà e soprattutto responsabilità da parte di tutti, cittadini compresi. Non è il libro dei sogni, è la realtà ed è alla nostra portata. La campanella è appena suonata, si inizia!