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Terremoto dell’anima, il Cardinale Petrocchi: “Amando Dio si ama il prossimo”

Terremoto dell'anima, prosegue a L'Aquila il secondo Convegno nazionale. Le riflessioni del Cardinale Petrocchi sulla Parabola del Buon Samaritano.

Terremoto dell’anima, prosegue a L’Aquila il secondo Convegno nazionale. Le riflessioni del Cardinale Petrocchi sulla Parabola del Buon Samaritano.

Il centro di gravitazione dell’episodio, narrato dal Vangelo di Luca (Lc 10,25-37), è il tema dell’amore: a Dio e al prossimo. Queste due linee sono inscindibilmente saldate e tra loro interattive: collegate, cioè, da reciprocità e proporzionalità dinamica. Più si ama Dio, tanto maggiore è l’amore che viene donato al prossimo; più si ama il prossimo, tanto maggiore diventa il rapporto di comunione con il Signore.
«Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose:
“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”» (vv.25-27).
«Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”» (v.28)
Per realizzare la propria esistenza secondo il progetto del Signore, è decisivo l’adempimento di questo comandamento dell’amore (avanzando sui due-versanti, strettamente congiunti, rivolti a Dio e all’uomo).
«Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?» (v. 29).
«Gesù riprese: Un uomo”

Il personaggio di cui si parla è anonimo; proprio per questo assume una rappresentanza universale: “un uomo” equivale a dire “ogni uomo”.
“Scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”» (v. 30).
Non si ricostruisce la rete causale degli eventi. Potrebbe essere caduto vittima di un agguato imprevedibile, oppure potrebbe aver commesso una imprudenza: aver scelto un itinerario troppo rischioso o non essersi dotato di una scorta adeguata.
Il testo parte dalla constatazione che l’“uomo” giace sulla strada senza più niente e mezzo morto: in condizione di “totale emergenza”.
«Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre» (vv.31-32)
Il sacerdote e il levita “si imbattono” in quest’uomo gravemente ferito e sofferente, ma non lo “incontrano”. Non si lasciano coinvolgere nella sua sventura e dall’evidente bisogno di aiuto. Non c’è alcun cenno di sosta o di interessamento.

Per due volte si propone il verbo: “Vide”. Non si tratta di un colpo d’occhio distratto o di uno sguardo fugace, ma di una percezione chiara dell’accaduto. C’è la consapevolezza della drammaticità della situazione. Tuttavia il “vide” non attiva la “coscienza etica”: il sacerdote come anche il levita avevano “buone ragioni” per fermarsi, essendo uomini religiosi. Infatti, la Scrittura proclama che siamo tutti figli di Dio, quindi legati tra noi dal vincolo della fraternità. Il principio cardine della morale biblica sentenzia: “ciò che volete gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (cfr. Mt 7,12; Tb 4,15). C’è, sul piano intellettuale, una rimozione teologica e morale; è stata innalzata una barriera culturale che impedisce al pensiero di scorrere nella direzione dovuta. Il “vide” non attiva la “solidarietà”: non scatta l’azione di aiuto, prevale invece una atrofia dei buoni sentimenti. Il cuore resta sganciato dallo slancio verso la partecipazione e privo di pietà fraterna. Si registra una dissociazione anche psicologica e un “blocco” affettivo, connotato dall’indifferenza. È una sorta di “schizofrenia” spirituale e relazionale quella che determina i criteri destinati a guidare la condotta del sacerdote e del levita.

Il testo precisa: “Vide”, e “passò oltre”. L’espressione induce delusione e tristezza. Il personaggio che giace sulla strada è avvertito come “estraneo”. Nel comportamento del sacerdote e il levita non traspare alcuna logica dell’accoglienza, ma domina uno stile “esclusivo” ed “escludente”. Vanno “oltre”, perché hanno “altro” per la testa, a cui pensare. Intervengono fattori “autolegittimanti”, perché si sentono mossi da “nobili” motivi, legati al ministero che svolgono; di conseguenza, adottano “strategie di evitamento” indebitamente “sacralizzate”. Hanno fretta: “ci pensino altri”, concludono. In nome di un bene, che non è in quel momento volontà di Dio, compiono un male. Il guaio è che non si sentono neppure “in colpa”. La loro coscienza è come narcotizzata e oscurata da pregiudizi ed egocentrismi. Invece coloro che ascoltano il racconto si sarebbero aspettati che i due religiosi si “chinassero” sull’uomo sofferente, per soccorrerlo: l’amore-misericordioso, infatti, ha diritto di precedenza rispetto ad altre opzioni e costituisce un “bene-più-grande” da custodire e applicare.

«Invece un Samaritano»
Il personaggio che compare sulla scena viene identificato non nell’anagrafe individuale, ma dalla provenienza, cioè è resa nota la gente a cui appartiene. È un Samaritano. Per i Giudei il termine evocava una storia attraversata da secolari incomprensioni e da forti conflittualità etnico-religiose. Perciò, è un passante che avrebbe avuto motivi (anche se non “buoni”) per “oltre”-passare quell’ “uomo” che poteva considerare un “avversario” e così sottrarsi al compito del soccorso che gli spettava. Nel racconto evangelico viene in risalto una “successione” di verbi che costituiscono “nodi narrativi” centrali e detengono intense tonalità evocative sul piano della relazione teologica e umana. Meriterebbero ciascuno una “sosta meditativa”, che il tempo a disposizione non permette. Mi limito solo a fornire qualche telegrafica “annotazione”.
«che era in viaggio, passandogli accanto» il Samaritano si accorge dell’uomo infortunato, ma non cambia la direzione di “marcia” per evitare una spiacevole esperienza e si espone a un forte “impatto esistenziale”. Proprio perché riconosce e rispetta l’“umanità” di quell’ “uomo”, va “verso” di lui.
«vide e ne ebbe compassione» (v. 33) Emerge la reazione giusta, intellettuale e morale, biblicamente fondata: la “con-passione”, che è sofferenza assunta e condivisa. L’altro è riconosciuto “simile” nell’umanità e fratello in una prospettiva di fede, perché creato e redento dall’unico Padre che è nei Cieli.

«Gli si fece vicino» (v. 34): non si tratta di un movimento solo spaziale. La “contiguità fisica” esprime una “prossimità integrale” generata dal “contatto d’anima”; «gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino»: l’intervento è rapido, concreto e adeguato: è una azione congrua perché risponde alla condizione di estrema necessità dell’“uomo” vittima di violenza; «poi lo caricò sulla sua cavalcatura»: iI Samaritano si sottopone a una fatica pesante perché compie lo sforzo di prenderlo sulle braccia e sollevarlo, fino a deporlo sul dorso del suo cavallo. Dandogli il “suo” posto, si priva di un importante mezzo di locomozione e di appoggio; «lo portò in un albergo»: il gesto non si esaurisce in un atto di generosità episodica, ma si organizza come atteggiamento stabile, mirato a dare conforto e a favorire la guarigione di quell’ “uomo”, diventato non solo “qualcuno”, conosciuto per caso, ma un amico da assistere: ciò postula la mobilitazione permanente del pensiero e del cuore; «si prese cura di lui» (v.33): non è solo premura esterna; questa sollecitudine dimostra che nel Samaritano si è spalancata la porta della fattiva “ospitalità” nella casa della sua anima.
«Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore» (v.35): La dedizione non resta a livello di “commiserazione” declamata o solo figurata, ma si traduce in passi efficaci e “trasformanti”; «dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»: la volontà di condivisione non si ferma all’atto di “caricarlo”, ma si spinge avanti fino alla scelta di “prenderselo a carico”. La carità samaritana affronta i “costi” del bene-fatto: è pronta a “spendersi” e ad erogare dal proprio “capitale” (spirituale e materiale).

«“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (vv. 36-37). Gesù non si limita ad accertare la corretta comprensione del Suo insegnamento, ma – poiché la Parola è Verità, così come Vita e Via – aggiunge “«Va’ e anche tu fa’ così». Questa esortazione del Signore è a “raggio-cattolico”, cioè universale: è rivolta a tutti e a ciascuno. Non ci si può contentare di aver maturato solo “convinzioni” altruistiche, ma occorre “muoversi” per renderle “operanti”. Per il credente – animato da “prossimità samaritana” – rispondere “virtuosamente” alle “urgenze umane” in cui si imbatte comporta accendere una “vigilanza evangelica” per intercettarle, incontrarle e prenderle su di sé. Mi si permetta di citare un brano, tratto da una pubblicazione pastorale, che, su questo tema, enuncia considerazioni importanti.

«Il prossimo richiede una tenerezza capace di rischio. Il prossimo, (nel senso detto dalla parabola), non può lasciare indifferenti; provoca a una risposta, impegna in una tenerezza concreta, oblativa, capace di rischio, per soccorrere il ferito. Se infatti ci domandiamo per quale ragione il sacerdote e il levita siano passati oltre, senza fermarsi, la risposta più probabile è che avessero paura. La strada che da Gerusalemme (750 m) scende a Gerico (300 m), era una strada pericolosa. Conosciuta come la “salita del sangue” (ma‘aleh ‘adum-mîn), copriva un percorso di una trentina di chilometri di montagna, piena di anfratti e luoghi scoscesi, che sembravano fatti apposta per un agguato. E’ molto probabile che il sacerdote e il levita temessero, fermandosi, di essere assaliti a loro volta. Forse i briganti erano ancora nelle vicinanze o forse l’uomo ferito era solo un simulatore. La domanda che affiora alla mente dei due uomini di culto è facilmente intuibile: “Se mi fermo per aiutare quest’uomo, che cosa mi potrebbe succedere?”. Il buon Samaritano rovescia la questione: “Se non mi fermo, che cosa gli potrà succedere?”. Due modi di ragionare diametralmente opposti: il primo, centrato sulla preoccupazione di sé, sull’io personale; il secondo orientato all’altro da sé, al tu, con il coraggio di impegnarsi in un altruismo generoso e pericoloso».

Concludo notando che il buon Samaritano sa confortare gli afflitti ed è capace di alleviare le tribolazioni dei miseri. Si muove con competenza e, anzitutto, sparge “affetto sanante” sulle “ferite dell’anima” dell’uomo aggredito. Arte, questa, che non si improvvisa, perché occorre un tirocinio evangelico per diventare “esperti” in umanità, specie di quella segnata da traumi. Inoltre, bisogna avere sviluppato una “sensibilità globale” alla sofferenza, nelle sue molteplici dimensioni, per vibrare all’unisono con il dolore dell’altro e avvertire la spinta a neutralizzarlo, come fosse il proprio.
L’avvertimento che ci viene dalla parabola è molto chiaro e vincolante: se qualcuno giace bisognoso sulla strada in cui passo, la cosa mi riguarda e mi chiama ad intervenire. Non basta accorgersi, bisogna sentirsi “coinvolti”, poiché l’altro mi appartiene. È rendendosi presenti – con carità innovativa – nelle “periferie esistenziali” (grandi o piccole) del mondo in cui viviamo che si contribuisce a costruire la Chiesa-comunione e una società a misura d’uomo.

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