I cinturelli

I Cinturelli, la voce del vento tra i pini che accoglie i visitatori di Bominaco

Bominaco: magia, bellezza e suggestione nella "Cappella Sistina d'Abruzzo", l'Oratorio San Pellegrino. Ne parliamo nell'appuntamento con la rubrica I Cinturelli.

I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, il contributo di Paolo Blasini. La voce del vento che bisbiglia tra i pini sembra dare il benvenuto ai visitatori di Bominaco.

Dal pianoro antistante l’Oratorio di San Pellegrino, ciò che maggiormente colpisce è l’amenità del posto, la pace asso¬luta che vi regna e la bellezza di un paesaggio che può es¬sere contemplato fino all’orizzonte, delimitato dalla catena montuosa della Maiella.
Posando lo sguardo più in basso, è la varietà policroma dei terreni, frazionati in tanti piccoli fazzoletti, che rende l’insieme della piccola pianura e del laghetto che la caratterizza, contorno ideale a quello che fu il complesso monastico di Bominaco.
E, quasi in contrapposizione a questo paesaggio che evoca secoli di umile lavoro campestre, sulle balze del Monte Buscìto, si ergono i resti del recinto fortificato con torre cilindrica, la cui sagoma sembra ancora oggi vigilare sull’intera area dell’Abbazia Benedettina.
Le mura perimetrali furono erette sulla cresta rocciosa della montagna ed interrotte, ritmicamente, da torrioni a pianta quadrata. I lati maggiori del recinto seguono longitudinalmente le impervie dorsali del monte e vanno a congiungersi alla base della torre principale.

Il recinto fortificato era facilmente raggiungibile per mezzo di un sentiero, che ancora oggi si percorre, sia dalla popo¬lazione che dai monaci dell’Abbazia, ed utilizzato quale rifugio in caso di pericolo. La sua costruzione è successiva al 1424, anno in cui Fortebraccio da Montone, nella sua marcia di avvicinamento all’Aquila, saccheggiò il Monastero di Bominaco e tutte le Terre attraversate.
Del complesso monastico furono risparmiate le sole chiese di S. Maria Assunta e S. Pellegrino, quasi che uomini d’arme av¬vezzi ad uccisioni e violenze avessero rispetto per quei luoghi sacri.
I monaci, comunque, furono dispersi dalla furia dei mercenari e, del monastero non più ricostruito, rimasero cumuli di macerie riutilizzate, successivamente, per la ricostruzione dell’abi¬tato di Bominaco e delle muraglie interpoderali. L’oblìo dei tempi cancellò, così, anche il ricordo di quello che fu il Monastero di Mòmenaco e della sua importanza, certo non poca, solo a voler considerare ciò che ancora resta.
L’Oratorio di S. Pellegrino, la chiesa più piccola, sorge quasi all’ombra di quella dedicata alla Vergine Assunta; seminasco¬sto tra i pini, sembra accogliere i visitatori sotto il suo portico a tre arcate frontali e due laterali.
All’intero, vuole la tradizione, siano sepolte le spoglie di S. Pellegrino, precisamente sotto l’unico altare che cela, lateral¬mente, una piccola pietra decorata in bassorilievo da due An geli in atteggiamento orante e dalla iscrizione: + CREDITE QUOD HIC EST CORPUS BEATI PELLEGRINI

La poca luce che illumina l’aula, di forma rettangolare, non impedisce a chi vi accede di ammirare la stupenda policromia degli affreschi che ricoprono sia le pareti che la volta a botte sestiacuta.
L’analogia con i colori usati negli antichi codici miniati benedettini, appare tanto immediata, quanto naturale. Le pitture che decorano l’Oratorio costituiscono uno dei più importanti cicli d’affresco dell’intero Abruzzo e sono coevi alla ricostruzione dell’edificio, voluta dall’Abate Teodino, attorno alla metà del XIII secolo.
Gli affreschi, che risentono fortemente l’influsso bizantino, coprono interamente le pareti e la volta carenata della chiesa. Le scene rappresentate sono tratte da storie dell’Antico e Nuovo Testamento, dalla vita di S. Pellegrino, effigi di Santi, Patriarchi e Profeti ed il famoso Calendario Valvense.
La parete d’ingresso è caratterizzata dalla gigantesca figura di S. Cristoforo, dai tratti tanto asimmetrici quanto rassicu¬ranti.
La tradizione, infatti, vuole che chiunque al mattino avesse sostato davanti all’immagine, prima di avviarsi alle varie attività lavorative, sarebbe stato preservato dalla morte improvvisa, senza conforto religioso, nel corso della giornata.
Ai lati della grande figura sono effigiati S. Onofrio e S. Francesco d’Assisi (di tale dipinto abbiamo ampiamente trattato in altro numero del giornalino), i Profeti Zaccaria ed Isaia, l’Ingresso di Gesù in Gerusalemme, la Lavanda dei Piedi e, quasi completamente perduta, la Strage degli Innocenti.

I dipinti sono disposti su tre ordini sovrapposti e precisamente: al primo ordine sulla parete di sinistra nella prima campata, Le anime dei Dannati, il Tradimento di Giuda, l’Arresto di Cristo, Pietro che rinnega il Maestro, Pilato che si lava le mani; nella seconda campata, Gesù tra gli Apostoli Pietro, Paolo, Giovanni e Giacomo; nella terza campata, l’incontro sulla via di Emmaus e S. Martino che dona il Mantello; nella quarta campata, S. Nicola, S. Giovanni Evangelista e, in alto, figure di Profeti.
Sulla parete di fondo, Madonna col Bambino tra figure di Santi e Sante. Sulla parete di destra, nella prima campata, la Flagellazione, la Deposizione, la Sepoltura e le Anime Elette. Ancora, nella prima campata del lato sinistro, l’Annunciazione e la Visitazione; nella seconda campata, la Natività, l’Annuncio ai Pastori e scene della vita di S. Pellegrino.
Nella prima campata del lato destro, l’Adorazione dei Magie e l’Inquietudine di Erode; nella seconda campata, la Presentazione al Tempio, la Venuta dei Magi e la Fuga in Egitto. Nella terza campata, i due semestri del Calendario Valvense, sovrastati da figure di personaggi biblici. Per volere dell’Abate Teodino la chiesa fu riedificata nel 1263, sulle vestigia del precedente edificio, sorto per desiderio di Carlo Magno.
Ciò è attestato da due iscrizioni, l’una, sul rosoncino del fronte posteriore, recita: + A.M. BIS. C. SEXDECIES TERNIS. HEC A REGE CARU¬LO FUDATA AB ABBE TEODINO
L’altra è riportata sui bordi dei bellissimi plùtei dell’iconostasi: + H. DOMUS A REGE CARULO FUIT EDIFICATA. A D Q P ABATE TEODINU STAT RENOVATA CURREBA ANI DNI TUC MILLE CC ET SEXAGINTA TRES LETO DICITO CENT
Molto probabilmente la chiesa fu edificata utilizzando mate¬riale di recupero di un anti¬co tempietto di età romana dedicato, forse, al culto di Venere.

Il colore degli edifici, la bellezza della ricostruzione post sisma

Elementi lapidei come i due segmenti di colonne rastre¬mate, riutilizzate nel XVIII secolo per edificare sul fronte dell’edificio l’attuale portico, ne sono testimonianza.
Uscendo dalla porticina sul fronte posteriore dell’Oratorio e percorrendo un breve sentiero in salita, si arriva sulla sommità della collinetta, la parte più alta dell’area dell’Abbazia, su cui fu costruita la chiesa principale, dedicata al culto si S. Maria Assunta.
Intorno all’anno mille l’edificio fu riedificato sulle vestigia della primitiva chiesa che, con l’avvento del Cristianesimo, era stata eretta a sua volta là dove esisteva il tempio pagano di cui si faceva cenno.
I luoghi, infatti, furono frequentati da genti italiche che stanziavano nei numerosi insediamenti dei dintorni.
I lavori di costruzione della chiesa si protrassero fino al XII secolo, per tutto il periodo, cioè, in cui il Monaste¬ro conobbe il suo massimo splendore.
L’edificio è a pianta rettangolare, con tre navate delimitate da colonne sormontate da capitelli di ricercata fattura in stile vagamente corinzio, che sorreggono arcate a tutto sesto.
Il piano del pavimento è disposto su tre livelli che se¬guono l’andamento naturale del terreno su cui è edificata la chiesa e che mostra chia¬ramente la viva roccia che ha condizionato l’opera dei costruttori.
Il livello più alto è interamente occupato dal Presbiterio, dal¬le armoniche proporzioni spaziali e che è delimitato da pilastri cruceiformi sormontati dalle arcate traverse.
Alla costruzione della chiesa sono seguite opere di arredamento della stessa, quali il Candelabro del Cero Pasquale, il Ciborio, l’Ambone, l’Altare Maggiore e la Cattedra Abbaziale.
Fu per volere dell’Abate Giovanni, precisamente negli anni 1180 e 1184, che la chiesa fu adornata con l’Ambone e la Cattedra Abbaziale; l’Abate Bernardo, nel 1223, fece edificare il Ciborio e l’Altare Maggiore.
Ciò è leggibile dalla iscri¬zione commemorativa sul bordo della mensa. Di particolare interesse è l’Ambone, fulgida espressione di arte scultorea Abruzzese della seconda metà del XII secolo.
Sul bordo del fregio che sormonta le quattro colonne di sostegno sta scritto: + ANNIS M.C. OCTUAGENIS PRESULE TUNC MAGNO CURULE SEDENTE ALEXA EGIS PRESCELTI SUB TE¬PORIBUS GULIELMI HOC OPUS EXCELSU MANIBUS CAPE VIRGO MARIA……
L’elemento più caratteristico della chiesa è però rappresentato dal Candelabro per il Cero Pasquale.
Si tratta di una colonna tortile, monolitica, che si diparte dal dorso di un leoncino stiloforo, per terminare con un capitello bizantineggiante lavorato con intagli che appaiono creati non tanto sulla pietra, quanto elaborati dall’arte del merletto.
La sinuosità delle forme e l’eleganza dell’insieme fanno sì che l’elemento appaia come la necessaria chiave di volta per la completezza dell’assetto del Presbiterio.
E’ stata da più parti avanzata l’ipotesi che le colonne delimitanti le navate della chiesa siano state recuperate dalla vicina città Vestina di Peltuinum e, quindi, riutilizzate a Bominaco.
La possibilità che ciò possa essere avvenuto è assolutamente da escludere per la semplice ragione che fino a circa un secolo fa non esisteva nessuna strada percorribile da mezzi a ruota che giungesse a Bominaco.
La natura stessa del terreno circostante il sito su cui sorge il paese, non avrebbe permesso neanche il trascinamento per alcun genere di carico.
E’, piuttosto, verosimile la possibilità che le colonne, oltre agli altri elementi architettonici del tempio, siano state scolpite “in loco”.
L’ipotesi che sul sito dove fu edificata l’Abbazia sorgesse già in epoca preromana un santuario, è possibile.
I luoghi, come già detto, videro la frequentazione di popoli italici; gli stessi che poco fuori l’abitato, in direzione ovest, scavarono nella roccia un santuario che, più tardi, con l’avvento del Cristianesimo, fu riconvertito al culto di S. Michele Arcangelo.
E’ possibile visitare questo tempio percorrendo un viottolo delimitato da muraglie a secco, che conduce ad una piccola piazzola pensile su cui si affaccia l’ingresso.
All’interno, nella penombra, si scorgono le vasche scavate nella roccia che raccolgono l’acqua piovana che a rivoli scorre lungo la rupe che sovrasta il tempio. Il topònimo di Mòmenaco evoca sempre laboriosità e cultura.
Un luogo senza tempo, dove la voce del vento continua a far risuonare la melodia dolcissima del silenzio, necessaria per poter ascoltare ancora il canto delle laudi e dei vespri, rivolto al Cielo dalle voci di Teodino, Bernardo, Giovanni e di tutti gli altri Monaci il cui spirito aleggia ancora intorno alla loro Abbazia.

Questo articolo è stato pubblicato sul periodico I Cinturelli, un progetto editoriale nato nel 2010 da un’idea di Dino Di Vincenzo e Paolo Blasini. I Cinturelli, disponibile online e cartaceo, racconta la storia, la cultura, le tradizioni e le leggende del territorio.

 

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