Grandangolo

Violenza sulle donne, non si tratta di un black out, ma di un percorso interiore

La violenza sulle donne è una caratteristica di una società in cancrena. Le riflessioni dell'esperta Chiara Gioia: misoginia, narcisismo patologico e incapacità degli uomini di accettare un fallimento o, semplicemente, un NO

Violenza sulle donne, difficile pensare che si arrivi all’atto violento all’improvviso. Ancor più difficile pensare che non ci sia altro. Chiamiamola questione di cultura, chiamiamolo patriarcato duro a morire, chiamiamola ‘paura’… Può cambiare la definizione, ma l’esito è quasi sempre il femminicidio. E in questi casi estremi, purtroppo, non ci sono altre parole che salvino una donna o che rendano diverso il finale della sua storia.
Grandangolo ospita la psicologa clinica e psicoterapeuta Chiara Gioia.

“Quando parliamo di violenza, ahimè una caratteristica della società attuale, intendiamo tanti tipi di violenza: quella fisica, mentale, verbale, d’atteggiamento. Sta di fatto che la violenza, in genere, tende ad annientare l’altro. Violenza è proprio l’azione che un essere umano compie per produrre nell’altro sofferenza. Questo modo di annientare l’altro può assumere, quindi, molteplici facce. Nei casi estremi, purtroppo, si arriva al femminicidio”. Giulia Cecchettin, Vincenza Angrisano, Michelle Faiers. Sono solo tre nomi, i nomi delle tre donne uccise nelle ultime settimane in Italia.

IMMAGINI E SQUILIBRI
Negli studi di Grandangolo, ai microfoni del direttore David Filieri, Chiara Gioia sottolinea come sia importante e doveroso andare oltre e non fermarsi ad una lettura superficiale del fenomeno, perché la violenza è un processo, un discorso interiore all’individuo. Non è il prodotto della follia che si scatena in un black out improvviso. La violenza è un’immagine psichica“.

L’uomo è un produttore costante di immagini: ogni suo comportamento è il riflesso di quelle immagini. Non ci sono comportamenti concreti senza immagini originarie e quando si verificano degli atti violenti, sia fisici che mentali, è perché c’è un’immagine psichica che fa da traino per tante altre immagini. Ciò ci porta a dire che la violenza, sostanzialmente, è frutto di una misoginia, poiché non c’è il riconoscimento del femminile“. 

L’esperta scende nel dettaglio e chiarisce il concetto facendo ricorso alla prospettiva psicoanalitica.
“Violenza sulle donne significa agire con violenza nei confronti di ‘Anima’: cioè di un femminile che non si riesce a sopportare poiché non lo si conosce, né lo si identifica. Ma il femminile è una parte della psiche di ognuno, di ogni uomo e donna. Per la psicoanalisi, infatti, l’appartenenza ad un sesso non si determina solo dalla biologia. Assumere il proprio essere sessuale richiede una simbolizzazione che, tuttavia, non sarà sufficiente, poiché nel mondo psichico questa differenza dei sessi non si scrive. Possiamo intendere la violenza come una cristallizzazione di una parte intrapsichica”. 
MISOGINIA
L’Anima corrisponde, quindi, “a quella funzione di relazione poco sviluppata nell’uomo” ed è determinata sì da fattori personali, ma anche e soprattutto “dalla cultura collettiva. Il compito di questo archetipo è quello di guidare l’uomo nel suo mondo interiore, ma ci riesce solo quando il soggetto fa attenzione ai propri sentimenti, ai propri atteggiamenti, alle emozioni, alle speranze che nutre. Quando c’è ascolto. Se vi è, al contrario, un rifiuto del confronto con l’Anima, si può sfociare nella misoginia, come è avvenuto nel mondo occidentale in fatti che la cronaca, purtroppo, riporta ormai quotidianamente“. 
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NARCISISMO PATOLOGICO
Se prendiamo in considerazione il femminicidio, sicuramente individueremo un elemento comune alla base di questa violenza, cioè “una problematica di narcisismo patologico da parte dell’uomo. Narcisismo patologico che può sfociare anche in una forma di depressione.
Cioè l’individuo maschio ha difficoltà nell’accettare un rifiuto. La mia compagna mi dice di no, mi vuole lasciare; io non riesco a tollerarlo. Questo anche perché viviamo in una società dove tutto sembra dover essere perfetto e ogni scopo sembra raggiungibile, un’idea che proviene anche dalla realtà virtuale. Accade quindi che l’individuo non tolleri più il fallimento, poiché fallire lo farebbe sentire fuori da un certo target. Si arriva, in questo modo, al sentimento del lutto. Se non si passa attraverso il lutto, elaborando la perdita, si sviluppa l’allucinazioneconcetto che è legato a quello della violenza, perché la violenza è anche tentazione. Per lutto bisogna intendere anche una separazione, una relazione che finisce: un qualcosa che, quindi, genera un cambiamento che l’individuo violento rifiuta, perché non è in grado di tollerarlo. Queste persone violente si sono cristallizzate nell’immagine di perfezione e ciò può risultare assolutamente disfunzionale”.
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La violenza sorge sempre per un effetto di fascinazione. Io ti amo perché vorrei essere come te, ma poiché non posso essere come te, io ti odio e ti uccido. Questo è uno schema che troviamo drammaticamente al centro di molti episodi di femminicidio

LA CULTURA DEL PATRIARCATO
“In queste settimane si parla molto di patriarcato – sottolinea Chiara Gioia – intendendo la violenza come il frutto di un’educazione impostata in un certo modo. Io credo, tuttavia, che quando si manifestano violenze così efferate, sotto tante e diverse forme – penso anche alla violenza tra ragazzi o nei confronti degli insegnanti – allora, vediamo che in realtà manca il patriarcato, perché manca il riconoscimento dell’adulto.C’è, invece, una perdita di valori. Quindi parlare di patriarcato non sempre corrisponde alla totalità dei casi violenti ai quali ci troviamo ad assistere. La storia ci parla di massacri e violenze, ma a mio avviso parlare di patriarcato nasconde quel narcisismo tipico dei giovani di oggi, che non sanno accettare rifiuti e che, dinanzi a questi rifiuti, precipitano nel baratro della depressione, incapaci di sostenere un fallimento”. 
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“Subire il rifiuto da parte di una ragazza significa riconoscere i propri limiti, vuol dire, al contempo, che non si può essere tutto, né avere tutto. Significa accettare una sconfitta delle proprie aspirazioni. Qui subentra, poi, la forma mentis familiare che si costituisce di immagini psichiche tutte improntate sul successo: con l’esito che i nostri figli non siano più in grado di assumersi le responsabilità delle loro parole e delle loro azioni. Per risolvere tutto questo, però, non basta introdurre nelle scuole un’ora di educazione affettiva, sessuale o sentimentale. Il rispetto per l’altro e, in particolare, per la donna non è una materia specialistica, ma avviene innanzitutto nelle famiglie e nella scuola, che hanno il compito di alimentare la cultura del rispetto della differenza. Hanno il dovere di educare all’essere psichici”. 

EDUCARE ALLA SOLITUDINE
“La solitudine – conclude Chiara Gioia – non è una malattia come si tende a pensare. Chi si sente solo pensa di essere malato. Ma, in realtà, la solitudine è uno stato che ci consente di conoscere noi stessi e di individuarci. Quando un individuo riesce ad individuarsi è in grado di restituirsi alla società e, quindi, di essere in condivisione. Oggi i ragazzi non vengono educati alla solitudine che, pure, aumenta sempre più. Pensiamo alla fase della pandemia e alle sue restrizioni sociali: un momento che, tuttavia, ha avuto anche dei risvolti positivi, poiché ci ha permesso di capire che insieme, remando nella stessa direzione e facendo ognuno la propria parte, si poteva superare quella condizione che ci ha tenuti lontano per tanto tempo. La solitudine, sostanzialmente, è una condizione umana che in alcuni momenti trova la sua forma espressiva in un’emozione. Condizione imprescindibile per vivere il sentimento di solitudine è aver raggiunto un certo grado di maturità psichica“. 

È indispensabile, quindi, la cultura della parola: comunicare è fondamentale, sia in famiglia che a scuola.
Il Capoluogo tornerà ad affrontare il tema della violenza sulle donne (e non solo) con l’esperta Chiara Gioia nei prossimi approfondimenti. 

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