I cinturelli

I Cinturelli, il cuore abruzzese di Gabriele D’Annunzio

Gabriele D'Annunzio: un abruzzese italiano, "che non frequentò mai né L'Aquila né la Marsica". Un ricordo del Vate per l'appuntamento con la rubrica I Cinturelli.

I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, il contributo di Alessia Ganga. La voce del vento che bisbiglia tra i pini sembra dare il benvenuto ai visitatori di Bominaco.

“Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali.
Quando mi ritrovo fra gente estranea dissociato, diverso, ostilmente selvatico, io mi seggo e, ponendo una coscia su l’altra accavallata, agito leggermente il piede ché mi sembra quasi appesantirsi di quella terra, di quel poco di gleba, di quell’umido sabbione ed è come il peso d’un pezzo d’armatura: dell’acciaio difensivo.” Così annotava Gabriele D’Annunzio nel 1935 nel suo Libro segreto, un diario autobiografico scritto nella sua residenza, il Vittoriale degli italiani, sulle rive del Lago di Garda, per quanto nei primi tempi a Gardone Riviera coltivasse il vezzo di farsi chiamare “Gabriele da Brescia”. Eppure l’Abruzzo, con la sua natura spesso descritta come selvaggia, le sue tradizioni, la sua saggezza, le donne e gli uomini, il sapore del cibo, gli animali, la terra (“il limo della mia foce”) è ovunque nell’opera e nella vita del “Vate”, nato a Pescara il 12 marzo 1863, nel quartiere Portanuova, in corso Manthonè.

Dalla madre, Luisa De Benedictis, Gabriele ereditò la fine sensibilità; dal padre Francesco Paolo Rapagnetta D’Annunzio il temperamento sanguigno, la passione per le donne e una certa dissipatezza…Fu proprio il padre a sostenere le ambizioni letterarie del giovane Gabriele e a soli 16 anni ne finanziò la pubblicazione a Lanciano della raccolta di poesie Primo vere che riscosse un grande successo anche grazie ad un piccolo espediente pubblicitario: lo stesso D’Annunzio fece circolare la notizia della sua prematura scomparsa a causa di una terribile caduta da cavallo. La notizia fu “battuta” dalla rivista letteraria romana “Il Fanfulla della domenica” che ne recensì l’opera appassionandosi alla vicenda dello sfortunato studente abruzzese. “L’immaginifico” in erba si affrettò poi a smentire la notizia. La sua prima, temeraria, missione era compiuta: era nato il Mito.
Intrapresi gli studi di Lettere a Roma nel 1881, si circondò, anche lì, di amici scrittori, artisti, musicisti e giornalisti abruzzesi conosciuti nelle estati trascorse a Francavilla al Mare (trasposte in versi nella raccolta Canto novo) durante le riunioni nel convento di Sant’Antonio di proprietà del corregionale Francesco Paolo Michetti, ribattezzato “cenacolo dannunziano”. Ma la scrittura e il giornalismo non erano le uniche passioni del giovane D’Annunzio che nel 1883 fu costretto ad un “matrimonio riparatore” con la nobile romana Maria Hardouin, la quale ebbe il tempo di dargli 3 figli prima di implorare la separazione a causa delle sue innumerevoli infedeltà. Note autobiografiche che transitano pari pari nel primo grande romanzo di D’Annunzio che lo consacra scrittore, Il piacere, dove il protagonista Andrea Sperelli, neanche a dirlo di origine abruzzese ma romano d’adozione, si separa dalla moglie finendo in un turbine di amori…
Nel 1902 pubblica i 6 volumi de’ Le novelle della Pescara, opere ambientate un po’ ovunque nella sua provincia d’origine, spingendosi fino a Popoli e Corfinio, ma mai varcando quel “limes”: l’abruzzese doc Gabriele D’Annunzio non frequentò (né celebrò mai) né L’Aquila né la Marsica seppure sia difficile immaginare che non pensasse a “noi” quando pubblicò nella raccolta Alcyone, la poesia “I pastori”, in cui rievoca la secolare tradizione dei pastori di “lasciare gli stazzi” dalla montagna, in settembre, e di andare verso il mare lungo i percorsi sterrati, sino alla dogana di Foggia.

Eppure fu proprio dall’”aquilano”, meglio ancora, da un nostro compaesano, il caporcianese Giovanni Del Guzzo, che gli giunse soccorso nel 1910 quando, indebitato fino al collo, firmò con quello che il Vate definì il “tenace colono latino” un accordo per una serie di conferenze in Argentina (dove Del Guzzo aveva fatto fortuna), in occasione dell’Esposizione Universale di Buenos Aires e delle celebrazioni della Liberazione. In cambio il ricco caporcianese avrebbe risanato tutti i suoi debiti con la somma di 480.000 lire.
D’Annunzio, entusiasta, disse a Del Guzzo: “ …da questo momento in avanti, ora che le nostre anime sono vincolate dal sacro nodo dell’amicizia, deve scomparire tra noi qualsiasi etichetta e bugiarderia sociale e dobbiamo abruzzesemente darci del tu”. Quindi, gli regalò una copia di Forse che sì forse che no con la dedica “Al messìa invocato e sopraggiunto. A Giovanni Del Guzzo con osanna” (Paolo Blasini, I Cinturelli, n.1, dicembre 2010). Senonché D’Annunzio, dopo aver spillato a Del Guzzo altre 10.000 lire per le spese di viaggio, anziché seguirlo alla volta di Buenos Aires se ne tornò a Parigi dove, ormai finito l’amore con Eleonora Duse, c’era ad attenderlo la sua nuova amante, “Donatella”, la contessa russa Natalia Goloubeff. I debiti erano ormai estinti e l’Argentina era troppo lontana…

Nel 1915 fece ritorno in Italia dove, all’età di 52 anni, si consegnò alla Storia con la “S” maiuscola: dalla campagna interventista nella prima Guerra Mondiale al volo su Trieste ancora in mano austriaca; dalla missione sul fronte del Carso dove perse un occhio, al volo su Vienna e all’impresa di Fiume a guerra ormai finita, l’Orbo veggente , come da allora in poi si riferì a sé stesso indicando la benda nera, raggiunse l’apice della sua opera più grande: la costruzione del mito personale e politico.
Deluso dall’epilogo dell’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò nella villa di Cargnacco (comune di Gardone Riviera), poi ribattezzata il Vittoriale degli Italiani.
Il 21 aprile 1925 D’Annunzio, assieme a Filippo Tommaso Marinetti, fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, ma non prese mai la tessera del Partito Nazionale Fascista con grave disappunto di Benito Mussolini.
Nei primi anni ‘30 il Duce, ormai all’apice del potere, lo acclamò come precursore politico e letterario del Fascismo e, forse temendo la popolarità e la scomodità del personaggio, lo ricoprì di incarichi, onorificenze e vitalizi, pronunciando la celeberrima frase: “D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d’oro”.
In cambio di tanta benevolenza D’Annunzio evitò di esternare pubblicamente il disprezzo che provava per la trasformazione del “movimento” fascista (che aveva ammirato) in un regime dittatoriale. Ma nulla poté il Duce per metterlo a tacere allorché il Vate si avvide dell’avvicinamento dell’Italia fascista al regime nazista, bollando Adolf Hitler, già nel giugno 1934, come “pagliaccio feroce”, “marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce di colla”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”, “Attila imbianchino”. La risposta del regime fascista fu quello di metterlo sotto stretta sorveglianza quando questi cominciò a propagandare la necessità di completare l’opera con una nuova “impresa fiumana” sulla Dalmazia.

I Cinturelli, i monoliti della Piana di Navelli

Ma la salute di Gabriele D’Annunzio era ormai in declino. Riceveva sì innumerevoli amanti, attirate dal suo carisma intatto e dal fascino che esercitava il suo mito, ma le aspettava ormai in camicia da notte o nella penombra, per nascondere il fisico invecchiato. Faceva spesso uso di stimolanti come la cocaina e di antidolorifici e negli ultimi tempi preferì addirittura il digiuno alla buona tavola (sua altra grande passione), rievocando la dieta arcaica dei pastori abruzzesi. Al suo medico personale, Antonio Duse di Salò, andava strillando: «Noi in Abruzzo ci curiamo così, e si campa cent’anni. Un pastore della Majella ne sa più di te!».
Erano ormai lontani i tempi in cui, scrivendo al conterraneo Luigi D’amico di dolci abruzzesi, disse: “O Ddie, quanne m’attacche a lu parroòzze, / ogne matine, per’ lu cannaròzze / passa la sise de l’Abbruzze me”.
Il 1 marzo 1938 Gabriele D’Annunzio morì nella sua villa per un’emorragia cerebrale mentre era al suo tavolo da lavoro. Sullo scrittoio era aperto il Lunario Barbanera, con una frase da lui sottolineata in rosso, che annunciava la morte di una personalità…
Ai funerali di Stato, voluti in suo onore dal regime fascista, la partecipazione popolare fu straripante. Il feretro era avvolto dalla bandiera del Timavo, il fiume che scorre tra Croazia, Slovenia e Italia, a ricordo delle sue imprese: «Toglietemi le fasce. Sbendatemi. » aveva lasciato scritto “Non voglio il lenzuolo degli infermi, il lenzuolo pallido dell’ospedale. Voglio che la bandiera del Timavo, che il làbaro del Fante, che il sudario del sacrifizio, mi copra solo…”
E chi, come Mussolini, lo chiamava in privato “il vecchio bardo decrepito” dovette inchinare il capo e rendergli onore, come ad un Eroe.

Questo articolo è stato pubblicato sul periodico I Cinturelli, un progetto editoriale nato nel 2010 da un’idea di Dino Di Vincenzo e Paolo Blasini. I Cinturelli, disponibile online e cartaceo, racconta la storia, la cultura, le tradizioni e le leggende del territorio.

 

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