11 settembre, 23 anni dopo: noi, aquilani, scampati per caso all’attentato alle Torri Gemelle

L’11 settembre 2001 Giovanni e Graziella, aquilani, erano a New York. Oggi, 23 anni dopo, riviviamo grazie al loro racconto quei giorni, le notti in aeroporto, il silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze.
L’ 11 settembre del 2001 Giovanni e Graziella, aquilani, erano a New York. Per Giovanni, neodiplomato, si trattava di un viaggio premio per la maturità: ad accompagnarlo sua zia, Graziella Mucciante.
Avevano pianificato di andare sulle Torri Gemelle l’ 11 settembre 2001: poi un caso, una coincidenza, ha voluto che ci andassero il giorno prima.
“Non credo alle coincidenze” ci racconta Graziella. “Ma a me è successo. Erano le 9 di mattina dell’11 settembre 2001: io ero sveglia e a quell’ora accendevo sempre la tv per vedere che tempo faceva, per pianificare meglio le nostre attività. Stavo guardando in tv questa giornata che si presentava bellissima, con un cielo limpido, quando ho visto il primo aereo che si schiantava sulla Torre: ho chiamato Giovanni, che stava ancora dormendo. Mentre lo chiamavo, si è schiantato il secondo. Questo non è un caso, ho pensato: è un attentato”.
Nelle parole di Graziella, il racconto di quei giorni, le notti in aeroporto, il silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze. E quei volti, vuoti e senza espressione, così simili a quelli degli aquilani il 6 aprile 2009.
“Per una di queste strane coincidenze, avevamo deciso di andare il 10 settembre in un museo molto caratteristico che si trova su un sottomarino dismesso al porto di New York: però quel 10 settembre era chiuso e, allora, abbiamo deciso di andare il 10 alle Torri e l’11 al Museo. Ho una bellissima fotografia di quel giorno, non avrei mai creduto sarebbe stata una delle ultime visite alle Torri Gemelle”.

“Quando abbiamo realizzato cosa fosse accaduto, ci siamo guardati, impauriti. Il nostro ritorno in Italia era fissato per il 12 settembre. “Intanto vestiamoci” ricordo di avergli detto. “Intanto prepariamoci”. Siamo scesi giù nella hall: ci sentivamo impotenti. In albergo avevano anche organizzato, come al solito, la colazione. La ragazza che serviva al nostro tavolo piangeva: non so se piangeva per lo choc, per la paura… non abbiamo neanche osato chiedere. Abbiamo fatto una rapida colazione e siamo andati fuori: volevamo renderci utili in qualche modo. Ci hanno detto che non era il caso: noi eravamo a Manhattan, nella 32′ strada. Da là si vedeva questa colonna di fumo nero, giù a downtown. Una cosa impressionante: ci sentivamo impotenti.
Un’altra cosa che non dimenticherò mai è il silenzio tombale: in una città che ti mette energia, soprattutto nella zona dei teatri, dove eravamo noi, non c’era un rumore. Ad un certo punto è iniziato il via vai di ambulanze: una fila lunghissima di ambulanze, a sirene spiegate. Siamo arrivati, pian piano, camminando al porto: lì abbiamo chiesto ai poliziotti che ci hanno detto di non arrivare a downtown per alcun motivo”
“Mi viene la pelle d’oca a ripensarci: il ricordo è talmente vivo, come se ci fosse stato ieri. Una cosa che ti stringeva il cuore: questo silenzio lacerato solamente dalle sirene delle ambulanze”.
Impossibile ripartire il giorno dopo, come pianificato prima che quell’attentato cambiasse il mondo per sempre. Tutti i ponti per arrivare all’aeroporto internazionale Jfk erano chiusi.
“La notte dell’11 avevamo ancora l’albergo: abbiamo dormito lì. Dormito… si fa per dire! C’è stato un allarme nel cuore della notte all’Empire, alla 34′ strada. Ci siamo dovuti alzare, vestire e uscire: poi è rientrato l’allarme. La notte successiva abbiamo preso un’altra stanza e abbiamo dormito un’altra notte là. Nel frattempo, avevo chiamato il Consolato generale d’Italia a New York che ci ha suggerito di restare in albergo: era sicuramente la soluzione più sicura. Il giorno dopo siamo stati in albergo e nei dintorni ma era tutto chiuso, anche per mangiare è stato un problema. Immaginate tutta Manhattan senza un posto per andare a mangiare!
Il 12 ho richiamato il Consolato e ci hanno consigliato di raggiungere l’aeroporto appena si fossero riaperti i ponti anche perchè temevano che potessero avvelenare l’acqua. Ci dicevano di bere solo acqua minerale”
13 settembre: l’aeroporto come “il deserto dei Tartari”
“La mattina del 13, guardando sempre la Cnn, ho capito che avevano riaperto un paio di ponti. L’albergo ha organizzato, rapidamente, una navetta e ci hanno portati al Jfk. Lì però c’era il deserto dei Tartari: non c’era nessuno” prosegue.
“Terminal, banchi e gate vuoti, computer spenti, con l’aria condizionata, però, altissima: uno scenario surreale. Eravamo in tutto una quarantina di persone: al terminal 1 c’erano tutti italiani e un gruppo di coreani. Noi italiani non siamo stati abbandonati” riflette. “I funzionari del Consolato sono venuti, ci hanno assistito e portato da mangiare, così come la Croce Rossa americana che ci ha portato delle brandine e dei plaid, utilissimi con il freddo che c’era dentro all’aeroporto. I coreani non hanno avuto un briciolo di assistenza: dormivano sui tavolini del bar, chiaramente chiuso. Ci siamo lavati al bagno dell’aeroporto. Siamo stati sempre in contatto con Alitalia, ci portavano da mangiare. “Magari rispondete pure al telefono“, ci hanno detto. Sai, diventi amico di tutti… è stata una situazione talmente assurda che poi nascono anche questi tipi di collaborazione e solidarietà”.
Il pc sbloccato: si può comunicare.
È difficile pensare di non riuscire a comunicare a New York, seppur più di 20 anni fa. Oggi, sarebbe impensabile non riuscire a chiamare casa o avvertire i parenti che si è vivi. Ma non è stato così.
“Giovanni è riuscito a far ripartire il pc di uno dei punti informativi e ha iniziato a mandare mail per altre persone, a fare telefonate. Ci aiutavamo gli uni con gli altri perchè non sapevamo come comunicare. Non c’erano i telefonini come ora e, soprattutto, ci voleva il quadriband per chiamare. Ero riuscita a chiamare casa un attimo l’11 settembre, dopo aver percorso tutta Manhattan in cerca di un telefono pubblico: erano tutti pieni, occupati” ricorda Graziella. “Dall’aeroporto, un signore americano, molto gentile, mi ha dato il suo telefono e ho chiamato casa, rassicurando tutti”.
“Il 15, finalmente, ci hanno fatto sapere che il giorno dopo sarebbero partiti due aerei, uno per Milano e uno per Roma”
Poi, il ritorno alla vita normale, se così si può definire. Eppure, quel viaggio e quei ricordi restano indelebili soprattutto per quanto poi Graziella, da aquilana, avrebbe vissuto nel 2009.
“La notte del 2009, quando sono uscita di casa e ho visto la colonna in alto che a me sembrava fumo, ma era polvere, dietro Santa Maria Paganica, e tutto quel silenzio, mi è tornato in mente l’11 settembre. Le facce dei newyorkesi che circolavano e le facce degli aquilani quella notte erano uguali. Quelle facce che gli anglofoni chiamerebbero “blank”, senza espressione, vuote. La stessa sensazione. Non lo dimenticherò mai”.

In memoria di tutte le vittime dell’11 settembre 2001: fra di esse, anche una donna di origini aquilane, Lorena Lisi. Scrive di lei Sergio Venditti
La famiglia Lisi fece formare l’amata figlia Lorena fino a farla laureare in materie economiche. Appena quarantenne, si fece strada in una importante società come la “Fiduciary Trust Company International“: Lorena, infatti, arrivò ai vertici societari come Manager.
Così, con il suo sorriso solare e contagioso, la ricordano i suoi compaesani, quando tornava a casa. Proprio a Sant’Eusanio Forconese le sono state intitolate una piazza e una borsa di studio, nella locale scuola. Lorena è caduta dal 94esimo piano delle due “Torri Gemelle”: non aveva mai pensato che l’essere più vicina al cielo, potesse riservarle quel tragico destino che nessuno, d’altronde, aveva mai immaginato prima.