Morta in terapia intensiva, familiari chiedono il risarcimento all’azienda sanitaria

I parenti della donna morta in terapia intensiva per le complicanze del Covid a causa di una porta bloccata, chiamano in causa la Asl per il risarcimento. L’intervista all’avvocato Carlotta Ludovici.
“Come parte civile ci siamo già mossi in sede extragiudiziale per richiedere all’azienda sanitaria il risarcimento dei danni per la morte della signora”. Così, ai microfoni del Capoluogo.it, l’avvocato Carlotta Ludovici, del foro dell’Aquila, legale dei parenti della donna ricoverata nel reparto di Terapia intensiva del G8 dell’Aquila e morta a novembre 2020 per le complicanze del Covid 19 a causa di una porta rotta che ha impedito di soccorrerla in tempo.
Per la morte era stato rinviato a giudizio un infermiere di Introdacqua, – all’epoca in forze presso il reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila allestito nei padiglioni del G8 durante l’emergenza sanitaria – accusato di aver causato per negligenza il decesso della paziente. Il giovane, difeso nel procedimento dall’avvocato Alessandro Scelli del foro di Sulmona, è stato assolto nei giorni scorsi dal giudice monocratico Tommaso Pistone (assoluzione richiesta anche dalla Procura), ma i familiari adesso richiedono un risarcimento alla Asl 1.

Il decesso della donna risale a novembre 2020, in piena emergenza sanitaria, in un periodo di grande recrudescenza del virus. L’infermiere lavorava all’ospedale San Salvatore dove era arrivato su base volontaria, rispondendo alla chiamata che il professore Franco Marinangeli aveva fatto al personale sanitario presente in regione, in un momento storico in cui c’era penuria di infermieri nel reparto che in quel momento si trovava in estrema difficoltà, quasi in “trincea”: la terapia intensiva. L’accusa sosteneva che l’infermiere “avesse agito con negligenza perchè non doveva abbandonare un paziente, ma assisterlo obbligatoriamente e ininterrottamente nelle manovre di nursing”. Il professionista invece ha sempre affermato di essere uscito dalla stanza per chiedere aiuto, non potendo fare altro, non essendoci nelle stanze dove eravamo ricoverati i pazienti nè telefoni, nè campanelli di allarme.
Nel momento in cui si era accorto di una anomalia nei parametri vitali, era uscito dalla stanza dove si trovava la donna e aveva chiuso la porta alle sue spalle, così come da protocollo. I soccorsi furono immediati, ma fu impossibile riaprire la porta, rimasta bloccata a causa di un guasto, tanto da dover chiamare un tecnico. Minuti preziosi che sono costati la vita alla signora. Una circostanza, quella della porta bloccata, segnalata in sede dibattimentale anche dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Ludovici che sottolinea: “Quando abbiamo presentato l’esposto avevamo indicato come causa principale del decesso della signora la rottura della porta. Non potevamo immaginare che sarebbe finito sotto processo proprio l’infermiere. La Procura ha fatto le indagini, ma la risultanza è stata una sorpresa anche per noi”.
“La Procura ha ritenuto di incriminare l’infermiere e non l’azienda sanitaria, nonostante il vice procuratore avesse chiesto la trasmissione degli atti. Per questo motivo è stato deciso di richiedere il risarcimento dei danni per i miei assistiti alla Asl”, conclude l’avvocato Ludovici.
Sulla professionalità e il corretto operato dell’infermiere si è espresso durante il processo anche il professore Marinangeli – chiamato a testimoniare – che ha ricordato come avesse seguito tutte le linee guida. “Il professore ha lodato l’operato del mio assistito – ha spiegato al Capoluogo l’avvocato Alessandro Scelli – dichiarando che in quella circostanza non avrebbe potuto fare altro. Nel reparto non era prevista la presenza fissa di un operatore in stanza, che interveniva solo al bisogno. È stato ricordato inoltre come avesse dimostrato grande professionalità rispondendo alla chiamata di aiuto della Asl, in un momento così difficile e delicato come quello dell’emergenza sanitaria”.