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Augusto Giangregorio, medaglia d’onore: il calcio, il pane, la vita nel campo di Goerlitz

25 gennaio 2025 | 19:24
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Augusto Giangregorio, medaglia d’onore: il calcio, il pane, la vita nel campo di Goerlitz

La storia di Augusto Giangregorio, medaglia d’onore: da Castelvecchio Subequo ai fronti di guerra. La sua prigionia nel campo di Goerlitz, il calcio che lo ha salvato e il ritorno a casa.

“La guerra è brutta, che ti devo raccontà?” Diceva così Augusto Pasquale Giangregorio al figlio Sandro, quando andavano a fare il riposino pomeridiano insieme nella loro casa di Castelvecchio Subequo.

Ma invece di chiedere una favola, quel bambino di cinque anni chiedeva al babbo di raccontare la guerra: lui che di anni con la divisa addosso ne aveva fatti, come amava ricordare, sei. Uno di servizio militare, terminato nel 1936, nella fanteria “Pinerolo”, e gli altri di guerra vera e propria, dal 1940 al 1945.
In mezzo, la paura, l’angoscia, la prigionia, la fame, la resistenza passiva. E il calcio.

augusto giangregorio

La storia di Augusto Pasquale Giangregorio, nato nel 1914 a Castelvecchio Subequo, parla di libertà, speranza e coraggio nel buio profondo della seconda Guerra Mondiale e della dittatura nazifascista. A raccontarla al Capoluogo è Sandro Giangregorio, suo figlio: il 27 gennaio riceverà per conto del padre la medaglia d’onore presso la Prefettura dell’Aquila, in una cerimonia che ricorderà sette militari deportati ed internati in quegli anni.

“Mio padre fu richiamato il 5 giugno 1940 alle armi, assegnato al 130′ Btg cc.nn. e trasferito nel marzo 1941 sul fronte greco – albanese. Sbarcò a Valona il 21 marzo: prima sede operativa a Salonicco, in Grecia e, successivamente, trasferimento in marcia in Balcania, ovvero nel territorio Greco-Albanese, dove rimase fino all’8 settembre 1943”.

Con l’armistizio dell’8 settembre, Augusto Giangregorio inizia la sua vita da IMI: ovvero da Internato Militare Italiano. Come lui, circa 700mila italiani, una gran parte del Regio esercito. Posti davanti alla scelta di passare dalla parte tedesca e combattere nella Wehrmacht o con le SS, rifiutarono in massa e, dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, si rifiutarono anche di aderire a quest’ultima e pertanto furono deportati in Germania.
Non come prigionieri di guerra, ma come internati: senza le tutele previste dalla Convenzione di Ginevra, senza la tutela della Croce Rossa Internazionale e delle altre organizzazioni umanitarie. Forza lavoro coatta per l’economia del Terzo Reich. Decine di migliaia di IMI persero la vita nel corso della prigionia per malattie, fame, stenti, uccisioni.

“Quando mio padre fu catturato dai tedeschi, il 9 settembre 1943, era già malato di malaria e la prigionia come internato lo indebolì ancora di più.  Fu deportato in treno in Germania e, pur essendo stato una camicia nera, decise di uscire dal conflitto: erano state troppe le sofferenze affrontate sul fronte greco-albanese, tanti gli amici scomparsi, troppa la delusione per l’esito del conflitto. Lui stesso si salvò per miracolo da un colpo di un cecchino. Fu recluso nel campo di Goerlitz, nella Slesia: lo  Stalag VIII-A .
La vita nel campo era dura: le baracche erano gelide e venivano riscaldate  con vecchie stufe ed assi di legno rimediate. Mangiavano pochissimo: bucce di patate, barbabietole, anche gatti uccisi a fucilate dalle guardie. Mio padre arrivò a pesare 44 chili.”

augusto giangregorio

Il compleanno nel campo di Goerlitz: il regalo dei compagni di baracca

Il calcio: la salvezza 

“Mio padre ha sempre giocato a calcio, se la cavava piuttosto bene. Era come Cabrini” ricorda sorridendo Sandro. “Giocava nel Sulmona, era compagno e amico fraterno  di Francesco Pallozzi, il portiere cui ora è intitolato lo stadio peligno. Quando Pallozzi fu ceduto all’Alessandria lui restò al Sulmona, e nella sua carriera sfiorò la serie A. Nel campo di Goerlitz si giocava a calcio e un giorno i tedeschi organizzarono una partita: Italia contro Inghilterra”.
Nonostante le condizioni fisiche, Augusto sfoderò una grande prestazione. Era una questione di orgoglio.
“Per lui gli inglesi erano la “perfida Albione“, contro di loro aveva combattuto in Grecia e diede il meglio di sè. Il comandante del campo lo chiamò e gli chiese che lavoro facesse: lui gli disse che aveva, con i genitori, una locanda dove vendeva generi alimentari e pane. Così, il comandante gli diede la possibilità di lavorare in un forno della città”.

“Ma lui il pane non l’aveva mai fatto” prosegue nel racconto Sandro. “Tu burò“, gli diceva il proprietario dell’attività commerciale. Ma vista la buona volontà, gli insegnò come fare le pagnottine all’olio tedesche”.
Posso morire sotto le bombe, ma almeno non morirò di fame”, pensava Augusto.

Il 23 febbraio 1945 aprirono il campo alla fuga di tutti prigionieri alleati, italiani ed anche russi, che fuggirono per evitare di cadere sotto il controllo dell’Armata Rossa. Si incamminarono verso sud, attraversarono Dresda rasa al suolo dagli Inglesi e, arrivati in Baviera, furono presi sotto il controllo degli Alleati ed il 2 maggio avviati al rimpatrio.

augusto giangregorioaugusto giangregorio

Il passaporto rilasciato nell’aprile 1945. Alla voce residenza, c’è scritto Rosenheim, in Baviera. Augusto Giangregorio era un “Hilfsarbeiter”, lavoratore non specializzato

Il rientro a casa

“Dall’Austria mio padre raggiunse il centro Italia in treno. Arrivò a Pescara e poi verso il centro Abruzzo in un camion inglese. Il viaggio si interruppe a Piano d’Orta: si buttò dal cassone perchè l’autista sbandava. “Va a vede’ che non sono morto in guerra e muoio in un incidente?””.

Ma casa era vicina. “Arrivò a piedi a Popoli dove trovò ospitalità presso il ristorante Onofrietti: gli offrirono da mangiare e da dormire la notte. Il giorno dopo, a piedi, raggiunse Castelvecchio Subequo e si recò in piazza. Lì c’era sua madre che stava facendo la spesa al mercato. Rimase impietrita: pensava che fosse morto, non aveva sue notizie da tempo. La commozione fu tanta in tutto il paese”.

Da allora rimase in paese, declinando anche una offerta per andare a giocare con la Lazio. Ma decise di restare accanto alla mamma, già in là con gli anni. “Si continuò a sentire con i suoi compagni di prigionia, si scrivevano lettere, facevano raduni. Sono stati incontri molto emozionanti”.

“Ho deciso di inviare tutti i documenti per la concessione della medaglia d’onore proprio l’8 settembre del 2023, a 80 anni dall’armistizio e dalla cattura del babbo, per ricordare la figura di mio padre e in memoria di tutti i suoi compagni”.

Lo stesso motivo per cui noi abbiamo deciso di raccontare la sua storia sulle pagine del Capoluogo.
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er non dimenticare