Intelligenza artificiale e salute mentale, il chatbot non è uno psicologo

L’Intelligenza artificiale è entrata nel mondo della psicologia: in quanti usano i chatbot terapeutici? Ma attenzione: fare un percorso terapeutico con un professionista è tutta un’altra cosa
L’intelligenza artificiale sta entrando ogni giorno di più nelle nostre vite, configurandosi come nostro “aiutante personale”. Dal promemoria dei nostri impegni, al robot aspirapolvere che viaggia per pulire casa, passando per Alexa che risponde a quasi tutte le nostre domande, fino alla possibilità di creare immagini inventate, ma super realistiche, capaci di far credere possibile l’impossibile. In tanti si rivolgono a questi sistemi anche per affrontare problemi e disagi.
Ma come si inserisce l’IA nel settore della psicologia? “Da un lato l’Intelligenza artificiale può sicuramente fornire un nuovo approccio valido alla terapia, dall’altra parte sono ancora molti gli aspetti che suscitano interrogativi. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo psicologico, infatti, può senz’altro aprire opportunità per individuare e comprendere con precisione i vari disturbi mentali, ma poiché il sistema IA utilizza modelli matematici ed algoritmi, finalizzati ad emulare le funzioni cognitive umane, difficilmente possiamo aspettarci di più rispetto ad un primo supporto nella diagnosi. Il limite è rappresentato soprattutto dalla mancanza di una reale interazione con il paziente affinché si decodifichino con esattezza problemi, disagi, disturbi di diverso genere e natura. Non si crea, cioè, quel dialogo e quell’alleanza terapeutica che sono alla base del setting e, quindi, della relazione tra esperto e paziente“, parola dell’esperta Chiara Gioia.
Non c’è empatia. Non c’è confronto. Non c’è stimolo al ragionamento. Dall’IA c’è semplicemente una risposta che, in molti casi, può essere utile solo a livello meramente pratico, ma che è lontanissima dal tipo di risposta che può dare una seduta dallo psicologo. È quanto spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia, ascoltata sul tema dalla redazione del Capoluogo.
“Noi lavoriamo tanto sul processo di individuazione della persona, affinché il paziente riesca a tirare fuori la sua identità e se ne prenda cura, mettendosi in relazione con il contesto sociale. Tutto questo come può essere ridotto a numeri ed algoritmi?”.
“I chatbot terapeutici possono essere un ausilio nel determinare una diagnosi, ma il rapporto deve restare umano”.

Sono molte, oggi, le ricerche che aprono agli scenari futuri ai quali questo progressivo sviluppo dell’Intelligenza artificiale potrebbe condurre.
La domanda principale, però, è sempre una: l’IA, nel tempo, sostituirà anche i rapporti umani?
A tal proposito Chiara Gioia evidenzia: “Abbiamo recentemente sottolineato come i giovani vadano educati al mondo di internet, all’uso dei social che, se eccessivo e non controllato, può diventare disfunzionale. Ora, con l’Intelligenza artificiale, quanto si rischia di rendere l’uomo troppo robotico?
Come può un robot riprodurre le emozioni umane? E proprio di emozioni si parla in psicologia. Perché nel setting si analizzano tante componenti del linguaggio non verbale, si analizza ciò che non si dice, ma che si percepisce“.
“Una persona si apre in virtù del suo rapporto di fiducia con il proprio terapeuta”.
Rapportarsi con un robot come può essere la stessa cosa?
“Nel nostro lavoro – continua Chiara Gioia – diamo voce alla psiche e la psiche ha bisogno non solo di usare parole, ma di un confronto, di interfacciarsi con qualcuno”. Interfacciarsi solo con l’IA creerebbe un vuoto difficile da riempire. Quello stesso vuoto che spesso i pazienti avvertono e che narrano al terapeuta. “Un vuoto che va immaginato, narrato e vissuto. Un robot come può fare tutto questo? Il setting è una strada, un percorso da seguire a tappe, in cui si scoprono paure, emozioni, sentimenti. Quindi oggi possiamo dire che in molti settori certamente l’Intelligenza artificiale rappresenta un’autentica rivoluzione, ma ci sono altri campi specialistici in cui il ruolo dell’uomo non potrà mai venire meno, perché c’è bisogno di qualcosa in più rispetto a risposte generate da numeri. Anche perché circondandoci di dimensioni virtuali, di contenuti interattivi che scorrono all’infinito su display di telefoni e iPad, di storie social che si susseguono una dopo l’altra, possiamo andare incontro a ripercussioni sulla nostra capacità di attenzione. Se perfino la terapia si sposta sulla dimensione robotica del chatbot, si perde anche l’elemento responsabilizzante, educativo e umano della terapia”.
“Ogni individuo nei momenti più bui, non ha bisogno di soluzioni o consigli, ma di essere ascoltato, accolto, guidato. La necessità è una connessione umana attraverso l’empatia, una presenza silenziosa, un tocco gentile. Questi piccoli gesti sono le ancore che ci tengono saldi quando la vita sembra troppo pesante. Questo lo sottolinea ad esempio anche Ernest Hemingway, ‘Sii la mano ferma che posso afferrare mentre ritrovo la strada’: questa è la Psicoterapia, un mettersi al servizio della Psiche per aiutarla e guidarla ad esprimersi nel miglior modo possibile, una modalità funzionale“.