Moti dell’Aquila, 54 anni fa la rivoluzziò del capoluogo d’Abruzzo

26 febbraio 2025 | 06:24
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Moti dell’Aquila, 54 anni fa la rivoluzziò del capoluogo d’Abruzzo

Assalto a sedi di partito e alle abitazioni dei politici, negozi passati a ferro e fiamme: per chi c’era è impossibile dimenticare i Moti dell’Aquila del 1971, la “rivoluzziò” aquilana nata per una congiunzione (e, invece di o), che metteva L’Aquila e Pescara sullo stesso piano.

54 anni fa L’Aquila fu scossa da quella che si presentava come una rivoluzione popolare. Per chi c’era, e c’è ancora ,sono stati giorni difficili da dimenticare. A partire dalla notte tra il 26 e il 27 febbraio 1971, la città fu sconvolta da una sommossa – simile a quella di Reggio Calabria – per difendere L’Aquila capoluogo, alla luce dello Statuto regionale della neo costituita Regione Abruzzo. Da allora, quelle giornate sono ricordate come i Moti dell’Aquila.

I moti dell’Aquila altro non furono che la conseguenza della due contrapposte anime che caratterizzavano e caratterizzano l’Abruzzo la cui diversità è insita nel nome che può essere declinato anche al plurale: Abruzzi. In verità, il ruolo dell’Aquila come capoluogo non fu mai messo davvero in discussione, ma la città avrebbe dovuto svolgerlo accettando il ruolo da comprimaria. Ed era quello che gli aquilani temevano. “Ju 26 Febbraio de ju 1971 a L’Aquila scoppiò ‘na piccola rivoluzione francese pe’ mutii riguardanti la pusizio’ de ju capoluogu”. Questa la testimonianza di Gianfranco Picella, all’epoca giovanissimo testimone d’eccezione dei moti per L’Aquila capoluogo. Il 26 febbraio del 1971 la città fu messa a ferro e fuoco dagli stessi aquilani, con sedi di partito date alle fiamme (dal Pci alla Dc), abitazioni di uomini politici messe a soqquadro, porte dei negozi distrutte o bruciate, pompe di benzina rovesciate, scontri con migliaia di uomini delle forze dell’ordine e con il bilancio di molti feriti e arresti.

Per capire cosa ha portato ai moti dell’Aquila bisogna fare diversi passi indietro e capire anche il contesto storico dell’epoca: nel novembre del 1968 iniziarono i lavori per la costruzione del traforo del Gran Sasso la cui apertura venne poi tenuta a battesimo nel 1984 dall’allora primo ministro Bettino Craxi. Il 12 dicembre del 1970 fu inaugurata l’Autostrada Roma-L’Aquila ed erano gli anni in cui la Sit Siemens si apprestava a diventare una delle fabbriche più imponenti del Meridione. Ma gli effetti di queste importanti iniziative si sarebbero visti solo dopo qualche anno. Infatti, dal 1961 a 1971 la popolazione della città continuò a decrescere. Purtroppo le attività del terziario non riuscirono ad assorbire il massiccio esodo dei lavoratori che interessò le campagne e diede il via a un movimento migratorio che spinse la gente a cercare occupazione in Lombardia, Piemonte o all’estero. Diversa sorte subì la fascia costiera, soprattutto l’hinterland Pescarese che ebbe un incremento di popolazione poiché risultava essere l’unico polo economicamente più attivo della regione, sostenuto dall’imponente sostegno delle infrastrutture di trasporto (ferrovia, porti e, soprattutto, strade). In tale contesto, il 7 giugno del 1970, i cittadini abruzzesi vennero chiamati alle urne per esprimere il voto con il fine di eleggere per la prima volta i consiglieri che avrebbero guidato la Regione Abruzzo. (Nel 1949 c’era stato fu il primo tentativo di attuare la Costituzione con la creazione delle regioni).

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I moti per L’Aquila capoluogo hanno generato tanti ricordi anche per i bambini del tempo che abitavano in centro storico. Per loro i moti del ’71 rappresentarono un qualcosa di misterioso e allo stesso tempo eccitante. Uno di quei bambini, ora adulto è Gianfranco Picella che tempo fa, con il Capoluogo, ha ripercorso i ricordi di quelle giornate.

“Abitavamo nei pressi di San Marciano e si sentiva un frastuono incredibile – ha ricordato Picella -. Le mamme non ci fecero uscire, perchè c’era tanta paura, dalla finestre e dai balconi assistemmo a quel brulichio, sentimmo le grida e le urla dei ‘rivoluzionari’. Noi, che all’epoca avevamo ancora l’innocenza data dalla giovane età, non capimmo fino in fondo cosa stesse accadendo: era qualcosa di più grande di noi, ma che non ci spaventava”.

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Il 26 febbraio del 1971 si riunirono all’Aquila i quaranta consiglieri regionali per votare lo Statuto che alla lettura del presidente Emilio Mattucci indicava come Capoluogo e sede degli organi della Regione la città dell’Aquila e che “La Giunta si organizza in dipartimenti aventi sede con i propri uffici a L’Aquila con 3 componenti per gli affari generali e l’organizzazione regionale, a Pescara con 7 componenti per gli affari economici e settoriali”, specificando erroneamente che “il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila e a Pescara”, e non “o a Pescara”.Quella congiunzione che avrebbe messo entrambe le città sullo stesso piano, al posto di una disgiunzione, intesa come luogo di riunione Pescara come extrema ratio, faceva apparire il quadro molto incerto. Questo errore di lettura diede il via alle prime proteste con il lancio di monetine da parte dei cittadini convenuti in massa. Inoltre, la distribuzione degli assessorati tra L’Aquila e Pescara non piaceva, poiché si capiva sin da subito che L’Aquila avrebbe dovuto cedere competenze (e che competenze) alla città adriatica. Lo Statuto venne approvato con votazione pressoché unanime: 38 sì (tutti i partiti), tranne uno assente (PSI) e uno contrario (MSI).

Sabato, 27 febbraio all’Aquila era una giornata particolarmente fredda. Quel giorno, la sera, trasmettevano la finale del Festival di Sanremo che sarebbe stato vinto da Nicola di Bari con la canzone “Il cuore è uno zingaro”. Ironia della sorte! Ore 4,00 del mattino, era da poco terminato il consiglio regionale, i primi gruppi di rivoltosi iniziarono a formare le barricate per chiudere le strade di accesso alla città. Ai Quattro Cantoni vennero ammassati e dati alle fiamme copertoni per inibire il traffico nel cuore della stessa. Alle 6,00 iniziò a divulgarsi la notizia di uno sciopero generale: restarono aperte solo le chiese e le farmacie. Per le vie della città i clacson delle auto e i rintocchi delle campane delle chiese annunciavano la movimentazione generale. Alle 9,00 iniziarono le devastazioni. Si assaltarono le sedi della DC, PLI, PSDI. Alle 9,40, migliaia di persone si riversarono a piazza Palazzo e iniziò l’assedio alla federazione del Partito Comunista dove erano rinchiusi un centinaio di funzionari e iscritti, i quali, con la mediazione del Questore, vennero lasciati uscire incolumi. I rivoltosi occuparono, devastarono e incendiarono la sede del partito.

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Alle 10,00 il sindaco Tullio De Rubeis comunicò che l’intera amministrazione si era dimessa (anche la giunta provinciale si dimise) lasciando la città senza governo, in balia di se stessa, proprio in piena sommossa; terminati i moti per L’Aquila, la Giunta rientrò in carica. Una mossa francamente incomprensibile oltre che irresponsabile. Alle ore 16,00 venne assaltata, devastata e incendiata l’abitazione del segretario democristiano Luciano Fabiani. Sempre nel pomeriggio ci furono tentativi di assaltare le abitazioni dei consiglieri regionali Brini del PCI (il quale venne minacciato anche con lettere minatorie), Merli della DC e del sottosegretario agli Interni l’onorevole del PSI Nello Mariani. Su Corso Federico e in Corso Vittorio Emanuele la situazione si apprestava a diventare incontenibile. Già erano stati chiamati in soccorso i celerini da Roma. Pervennero all’ospedale San Salvatore le prime richieste di soccorso. I contestatori provarono ad assaltare la Questura, senza esito. Poi la Prefettura diventò il centro delle contestazioni: bombe molotov, sanpietrini, lacrimogeni accesero lo scontro tra i rivoltosi e le forze dell’ordine. Alle 20,30 i contestatori incendiarono il distributore di benzina a piazza Duomo, poi si riversarono al negozio di Monti (un industriale di Pescara), anch’esso venne distrutto e dato alle fiamme, i vestiti furono gettati e sparpagliati per strada. Lo scontro andò scemando intorno alle 21,00. Questo fu il primo bilancio di una contestazione popolare, perché tale era, anche se includeva piccole frange esterne, in cui il buonsenso aveva lasciato il posto alla violenza. Si volle attribuire a questi moti una matrice fascista, invece fu una rivolta di popolo come sostenuto dai manifesti che uscirono i giorni successivi in cui L’Aquila si dichiarava antifascista e che la città “ha respinto con sdegno le manovre frontiste che, ai fini della polemica contro il Governo, intendono imprimere un marchio fascista sulla fisionomia della città”.

Delle contestazioni, che proseguirono fino alla giornata di lunedì, se ne occuparono tutti media nazionali. In definitiva, la legge 480 del 22.07.1971 inerente allo Statuto venne approvata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale di fine luglio senza che le proteste degli aquilani riuscirono a cambiarne il contenuto. Insomma fu dato un colpo al cerchio e una alla botte che soddisfò solo parzialmente l’esigenze delle due città, soprattutto dell’Aquila la quale, nonostante gli fosse stato riconosciuto il ruolo di capoluogo, doveva comunque fare i conti con una Pescara in forte crescita la quale, pur avendo la consapevolezza di non poter assurgere a quella posizione, chiedeva di avere voce in capitolo al fine di determinare le politiche economiche e il futuro di questa Regione.

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In verità, il ruolo dell’Aquila come capoluogo non fu mai messo davvero in discussione, ma la città avrebbe dovuto svolgerlo accettando il ruolo di comprimaria. Ed era quello che gli aquilani temevano. Temevano di veder minacciato il loro futuro. Questa, se vogliamo, è la storia delle due anime degli “Abruzzi”: una ben rappresentata da L’Aquila la quale ha una vocazione nel terziario e l’altra, Pescara, a inclinazione commerciale e industriale, che ha i propri interessi verso l’Adriatico (e questo l’ex presidente di Regione lo aveva ben capito spingendo a suo tempo per la creazione di una regione macroadriatica in cui Pescava poteva diventarne il centro propulsore, mentre L’Aquila, in quel contesto, avrebbe avuto un ruolo senz’altro marginale). Non solo la fascia costiera rientra nell’interesse della città dannunziana però, e questo l’amministrazione pescarese lo tiene bene in mente e, aggiungo, avvedutamente, considerando l’importanza che riveste la capitale d’Italia (il potenziamento della linea ferroviaria con la stessa ne è una tangibile dimostrazione).

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Moti dell’Aquila: Silvio Graziosi, “lapsus diabolico scatenò finimondo”

Fu una vocale, una ‘e’ al posto di una ‘o’, pronunciata erroneamente dal presidente del Consiglio Regionale abruzzese Emilio Mattucci nella seduta infuocata del 26 febbraio 1971, a scatenare la rabbia degli aquilani che diedero vita ai moti a L’Aquila in difesa del capoluogo? A rispondere all’interrogativo è stato un testimone oculare e cronista dell’epoca, responsabile della prima pagina dell’inserto de ‘Il Tempo’ d’Abruzzo, poi fondatore e capo Ufficio Stampa della Regione, Silvio Graziosi giornalista professionista dal 1963, scomparso a luglio scorso (fonte Ansa 25 febbraio 2021). “Trascorsero circa due anni – ha ricordato all’Ansa – per mettere a punto il testo dello Statuto della Regione Abruzzo. I passi più difficili riguardarono gli articoli 1 e 2: ‘L’Abruzzo è una Regione autonoma nell’unità politica della Repubblica italiana ed esercita i propri poteri e funzioni secondo i principi e nei limiti della Costituzione e secondo il presente Statuto. Capoluogo e sede degli organi della Regione è la città dell’Aquila. Il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila o a Pescara’. Una ‘o’ disgiuntiva che fu foriera di guai. Lo spazio riservato al pubblico nella sala delle riunioni era, come in tutte le precedenti riunioni, stracolma di pubblico e di ‘campanilismo’: il presidente Mattucci annunciò che nella riunione dei capigruppo era stato approvato il testo dei tanto attesi articoli 1 e 2 dello Statuto regionale già predisposti per essere approvati dal Consiglio. Mattucci cominciò il più breve e celebre suo discorso nella storia della neonata Regione Abruzzo. Io ero lì, seduto davanti al tavolo riservato ai giornalisti, da dove udivo persino il respiro affannoso dei consiglieri regionali, consapevoli che di lì a poco, come in effetti avvenne, si sarebbe innescata quella miccia che per una notte e due giorni mise a ferro e fuoco L’Aquila con disordini che provocarono danni, feriti, arresti; le sedi della Dc e del Pci furono date alle fiamme, come pure le case di esponenti politici. Grazie alla mia frequentazione assidua degli ambienti di Palazzo Centi, sede della Presidenza del Consiglio regionale – spiega -, ero venuto a conoscenza, da una indiscrezione che il presidente Mattucci aveva trascorso l’ultima settimana a preparare il discorso di circostanza. Lo aveva riletto cinque volte, rimarcando il punto dolente del capoluogo – l’articolo 2 – che era stato risolto dalle forze politiche con un compromesso che premiava L’Aquila, ma non scontentava Pescara, riservando alla città adriatica una sorta di ‘pari dignità. Quella sera del 26 febbraio 1971 Mattucci, nonostante le prove di lettura, incappò in un lapsus diabolico quanto nefasto. Al passaggio più atteso sbagliò una congiunzione fondamentale. Lesse: ‘Il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila e a Pescara’ invece di leggere, come concordato dai capigruppo, ‘a L’Aquila o a Pescara’. Quel lapsus azzerava il primato dell’Aquila. Un cerino gettato sopra una montagna di polvere da sparo. Ad accenderlo, ci pensò ‘una correzione’: il lapsus del professore Mattucci (insegnante di lettere e filosofia, ndr) fu corretto dal consigliere e, anche lui professore, Francesco Benucci, noto ‘purista’ della lingua italiana”.

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(l’assalto al negozio Monti, la cui “colpa” del titolare erano le origini pescaresi).

“Nel tentativo di rimettere grammaticalmente le cose a posto, Benucci gridò, alla volta del presidente Mattucci, per tre volte: ‘o!’, ‘o!’, ‘o!’, che per una platea già nervosamente carica suonò come un incitamento alla ribellione. E nell’aula gremita da una folla mai vista, successe il finimondo con urla e lanci di monetine verso gli spazi occupati dai consiglieri. Fu il consigliere Federico Brini, comunista, a scagliare, con atto di rabbia, una bottiglia (contenente vino o acqua?) verso l’artistico lampadario centrale del salone. Come far uscire i consiglieri regionali dal Palazzo, quella notte, fu un’avventura. Finalmente la polizia scoprì la seconda e più sicura uscita in fondo a Via S. Michele“.