Le nuove stanze della poesia

Le nuove stanze della poesia, Giorgio Caproni

Cosa ci dice la poesia di Giorgio Caproni? Ne parliamo nell'appuntamento con la rubrica settimanale a cura di Valter Marcone.

Giorgio Caproni, il poeta della solitudine e dell’allegoria.

Spesso faceva ritorno a Genova per stare con la moglie, viaggiando in treno di notte, momento di grande ispirazione come nel primo sonetto della raccolta Il passaggio d’Enea, intitolato Alba. Il titolo del libro si rifà ad una statua situata a Genova in cui Enea porta sulle spalle il padre. I temi principali del componimento, ricorrenti nella sua produzione, sono la passione per i mezzi di trasporto pubblici come il treno o il tram e lo scenario dell’alba. Composto nel 1945, è ambientato in un bar nei pressi della stazione, a Roma, dove il poeta nelle prime luci dell’alba aspetta l’arrivo della moglie in treno. L’immagine del tram che apre e chiude in continuazione le porte passando di fermata in fermata senza che salga né scenda alcuna persona è l’emblema struggente di una solitudine infinita. L’autore stesso ci narra del motivo di questa composizione: “A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla stazione, e aspettavo mia moglie Rina che doveva arrivare da Genova. Una latteria di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate che sanno appunto di “rifresco”. Mia moglie non poteva stare con me a Roma perché non trovavo casa e dovevo stare in pensione. Erano tempi tremendi”.

Amore mio, nei vapori d’un bar

all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

In tema di solitudine Il franco cacciatore, che raccoglie circa un decennio di attività poetica di Giorgio Caproni (1973 – 1982), continua a ruotare sui temi della solitudine, di Dio, della morte, del viaggio: un cammino che, come nel Muro della terra, si svolge anche all’indietro, in un passato poco reale quanto il nebuloso presente e l’imperscrutabile futuro, un cammino, in ogni caso, attraverso i “luoghi / non giurisdizionali” dove le usuali coordinate spazio – temporali non valgono più. La condizione umana è sempre la solitudine, il tempo è quello buio della notte-“Ero solo. Andavo. / Seguivo una buia viottola. / Mi batteva il cuore. Ascoltavo. / (non c’era altra voce) la nottola.”, La nottola; “[…] Siamo soli: io e il grido / – rauco – del gabbiano. / […] Tutt’intorno il buio. / Il mare. La sua brughiera.”, Riandando, in negativo, a una pagina di Kierkegaard.
Nell’illusoria eterna immobilità, solo il vento si alza su deserti paesaggi di morte: “[…] Tutti / se ne sono andati senza / lasciare traccia. / Come / non lascia traccia il vento / sul marmo dove passa. […]”, Foglie; “Gli amici sono spariti / tutti. Le piazze / sono rimaste bianche. / Il vento. […]”, Escomio.
Facendo allora un passo indietro all’anno 1936, all’esordio poetico di Caproni con la raccolta Come un’allegoria, bisogna sottolineare l’importanza che aveva per lui la figura retorica dell’allegoria, la quale esprime qualcosa di astratto attraverso un’immagine concreta. L’autore stesso spiega la scelta del titolo del libro: “Nella mia prima raccolta esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d’altro che sfugge alla nostra ragione”. Dunque, “noi possiamo avere, al massimo, l’allegoria di questa realtà”. Nella poesia “Borgoratti “ viene espresso il titolo attraverso i versi “Come un’allegoria una fanciulla appare sulla porta dell’osteria”. Questa immagine che appare improvvisamente al giungere della sera come una fotografia, una figura poetica, “una fanciulla”, contrapposta al contesto quotidiano, “un’osteria”, cela un significato profondo.

Borgoratti
Anche le vampe fiorite
ai balconi di questo paese,
labile memoria ormai
dimentica la sera.
Come un’allegoria,
una fanciulla appare
sulla porta dell’osteria. 
Alle sue spalle è un vociare
 confuso d’uomini – e l’aspro odor del vino. La ragazza dunque sta a presidiare l’ingresso di un luogo vociante , quasi un varco per un altro mondo ,un’altra realtà Sembra quasi che tutto si risolva in questa osteria che è appunto un mondo che si fa oscuro e tenebroso. La poesia inizia con versi luminosi di fiori ai balconi , una luce che pian piano si affievolisce e sfuma del tutto con il giungere della sera. È l’immagine della morte, espressa dal verso “Alle sue spalle è un vociare confuso d’uomini” che sembra prendere il sopravvento ; dietro alla giovane si apre dunque il regno dei morti in cui si confondono i lamenti degli uomini in un quadro che ci è descritto attraverso il carattere olfattivo: “l’aspro odore del vino”, verso che richiama lo stile di Carducci.
L’ambientazione del componimento è quello che ai tempi di Caproni era un borgo ai confini del capoluogo ligure, oggi divenuto periferia. Qui la trasposizione letteraria trasforma la realtà che dà vita ad un altro scenario: La brevità del testo, la sua sinteticità pone delle difficoltà ad una piena comprensione. Che cosa aveva nell’animo Caproni quando scriveva questi versi.

La ripresa del verso del Carducci poi sembra essere controcorrente in un momento in cui è la poetica dannuinziana che sembra ispirare molti altri poeti Caproni definiva Carducci “macchiaiolo”, riferendosi al movimento pittorico di Giovanni Fattori, attivo nella seconda metà dell’Ottocento. Per Caproni proprio in quel verso “biancheggia il mare “ si ha l’impressione di vedere un’immagine del mare molte volte trasposrta sulla tela da quella corrente pittorica.

La raccolta “Come un’allegoria” è l’esordio della poetica di Giorgio Caproni pubblicata nel 1936 a Genova. Nella sua prima edizione, consta di sedici poesie, e undici di esse risultano già uscite su rivista. E dunque c’è un filo rosso che si dipana a partire da “Come un’allegoria” e si conclude con la postuma “Res Amissa”. Tutte le sue raccolte poetiche infatti seguono uno sviluppo evolutivo che si fonda su una relazione tra realtà ed allegoria, tra sensoriale e sovrasenso. Un tema che cambia però continuamente da raccolta a raccolta caratterizzate da una scrittura nella quale viene perseguita una progressiva evanescenza del reale nell’allegorico.
Ecco alcuni esempi
*
Spiaggia di sera
Così sbiadito a quest’ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d’indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.
Come una randa cade
l’ultimo lembo di sole.
Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull’alghe, e un fresco
vento che sala il viso rimane
*
Fine di Giorno
Quando più sguscia obliquo
il sole su queste strade
ogni cortile ha strane
battaglie, con ingenue grida.
Nel tocco delle campane
c’è ancora qualche sapore
del giubiloso soggiorno;
ma se mi passa accanto
un ragazzo, nel soffio
della sua bocca sento
quant’è labile il fiato
del giorno.
*
Sei ricordo d’estate
Sei ricordo d’estate
nella casa sorpresa quieta
presso aromatiche sere,
quando il rondone rade
il canale, e cade
strano nella frescura un suono
da sonagliere randagie
di cavalle in sudore.
“Nella mia prima raccolta esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d’altro che sfugge alla nostra ragione”. Dunque “noi possiamo avere, al massimo, l’allegoria di questa realtà”.
A quest’ora il sangue
del giorno infiamma ancora
la gota del prato,
e se si sono spente
le risse e le sassaiole
chiassose, nel vento è vivo
un fiato di bocche accaldate
di bimbi, dopo sfrenate
rincorse.
Questa poesia Vento di prima estate, tratta da Come un’allegoria, è la quinta della raccolta in cui Caproni vuole esprimere il dubbio che “tutta la realtà non sia che l’allegoria di qualcosa d’altro che sfugge alla nostra ragione.”
Una poesia breve,carica di simboli, folgorante , anche “descrittiva”, che appunto afferma che nessun paesaggio, in realtà, è semplicemente esteriore. Con poche parole ma efficaci Giorgio Caproni è capace di restituirci il calore dell’aria estiva sulla pelle, un soffio di vento vivo che ci attraversa. Dando corpo e materia al vento il poeta ci fa sentire anche forte il brivido della libertà e della spensieratezza.
La chiave allegorica è evidente il prato viene incendiato dal sole proprio come il sangue infiamma le guance in un momento di imbarazzo o di vergogna. Termini come “sangue”, “infiamma”, “accaldate”, “sfrenate”, “rincorse” rimandano ad una certa sensorialità, ad una corporalitàche impregna il componimento e dispiega la sua potenza in tre immagini i: il tramonto infuocato, il silenzio della pianura dopo i lunghi giochi dei bambini e i loro fiati accaldati dopo un pomeriggio di risse e rincorse.
Giorgio Caproni in vita non ha sicuramente raggiunto la notorietà di molti altri poeti . Nato a Livorno nel 1912, a dieci anni si trasferì con i genitori a Genova dove frequentò le scuole, studiò musica e imparò a suonare il violino. Proprio lo studio e la passione per la musica determineranno parte della sua poetica . Iniziando a scrivere poesie si dedicò anche allo studio dei poeti in cui ritrovava il fascino della parola e della musica insieme.
Uno studio che continuò anche con l’opera di Dante ,Leopardi e Carducci .Uno studio metodico e profondo che klo portava per esempio ad annotare persino le voci dei dizionari italiani e francesi della sua biblioteca personale ricca di opere tra cui i classici della moderna poesia francese, da Charles Baudelaire a Paul Verlaine e capolavori del nostro Novecento come L’allegria di Giuseppe Ungaretti ; il Canzoniere di Umberto Saba; Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro di Eugenio Montale; i Canti Orfici di Dino Campana . Teneva con sé anche alcuni testi degli amici Camillo Sbarbaro, Mario Luzi e Pier Paolo Pasolini. n ambito filosofico due erano i testi per lui fondamentali: le Confessioni di Sant’Agostino e Il concetto dell’angoscia di Soren Kierkegaard . Nel 1938 si trasferì a Roma, intanto aveva conosciuto Rina, la “nuova speranza”, che presto divenne sua moglie. Finita la Seconda guerra mondiale scelse definitivamente l’insegnamento come principale professione, presso una scuola di Roma, “felice di vivere fra i ragazzi”, continuando nel frattempo a scrivere poesie e racconti, a collaborare a riviste letterarie e a tradurre autori francesi –
Caproni raggiunse il successo con Il muro della terra (1975): cominciò a ottenere inviti da prestigiose istituzioni internazionali, vinse altri premi e nel 1984 ottenne dall’università di Urbino la laurea in lettere honoris causa. Agli anni ottanta datano le ultime raccolte, Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986). L’ultima, Res amissa, uscì postuma nel 1991:
la morte lo colse infatti nel gennaio del 1990. Postuma uscì anche, nel 1996, una raccolta di saggi critici dal titolo La scatola nera.

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