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I Cinturelli, oltre Sallustio: meglio dedicare una statua… alla pecora

I Cinturelli: il contributo di Paolo Blasini. La statua di Sallustio che ha acceso il dibattito in città e la storia di un territorio legato da sempre alla pastorizia. Perchè non intitolare anche una statua alle pecore che per secoli hanno assicurato il sostentamento al territorio?

I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, con il contributo di Paolo Blasini. Qualche tempo fa, sul periodico, si era parlato anche della  statua di Sallustio su Piazza Palazzo, un tema che ha riacceso il dibattito in questi giorni, dopo l’idea di riportare l’antica fontana da Piazza dei Gesuiti a Piazza Palazzo. 

Le cronache ed i resoconti della ricostruzione post sisma hanno ribadito, se mai ce ne fosse stato bisogno, che L’Aquila è una città d’arte, una delle prime in Italia. I monumenti più insigni li conosciamo tutti e non c’è bisogno di elencarli; è, invece, da osservare lungo le vie ed i vicoli del centro storico, case e palazzi, appartenenti a famiglie nobili e gentilizie, che danno testimonianza di quanto fiorente fosse l’economia della città nei decorsi secoli. Chiese e fontane caratterizzavano un arredo urbano di prim’ordine; piazze e piazzette ospitavano, giornalmente, i mercati dei diversi prodotti e botteghe artigiane erano presenti in tutti i vicoli, tramandando l’arte dei vari mestieri. Di questo prosperoso passato ne è orgoglioso e fiero ogni aquilano. Salvo, però, provare un certo disagio quando qualcuno fa notare che la fiorente economia di cui sopra, che ha consentito l’edificazione di una città d’arte è dovuta, esclusivamente, ai proventi della pastorizia. Quindi, alla pecora.

piazza palazzo statua Sallustio

Sulle montagne circostanti la città, i famigli delle nobili casate, così come i grandi possidenti armentizi, provvedevano all’allevamento ed al pascolo di milioni di capi ed alla conseguente lavorazione dei prodotti caseari da riversare sui vari mercati, anche a notevoli distanze. Come sappiamo, in settembre, aveva inizio la “mena delle pecore” in terra di Puglia, allo scopo di evitare il rigido inverno abruzzese ed avere fertili terre per il pascolo. Lungo il tratturo, sulla nostra piana, si faceva in modo di far allestire lo stazzo per la sosta notturna sui terreni destinati alla coltura dello zafferano: un buon raccolto aveva quale presupposto una buona concimatura. L’Aquila, pertanto, traeva il massimo profitto dall’allevamento ovino, pur non provando neanche il fastidio dell’odore emanato dallo stallatico.

I profitti derivanti dall’attività armentizia, oltre che arrecare indubbi vantaggi per l’indotto, hanno consentito di edificare la città come oggi la vediamo. Anzi, come speriamo di rivederla al più presto. Gli Aquilani, però, non sono stati (e non lo sono tuttora) riconoscenti: l’unico monumento che sono riusciti ad erigere (la Vittoria Alata per i Caduti e la Fontana Luminosa, ambedue di Nicola D’Antino, non fanno testo) è quello a Sallustio Crispo in Piazza Palazzo. Cosa poi c’entri Sallustio, non si sa, visto che lo Storico pare fosse di Amiternum, città sabina ben distante dal centro, almeno quello “intra moenia”. Forse l’inconscio desiderio di rivendicare un quarto di nobiltà? E la pecora? Dimenticata? Alla pecora gli aquilani avrebbero dovuto (e fanno ancora in tempo) dedicare un grandioso monumento, con iscrizione di imperitura riconoscenza. Senza vergogna, ma con fierezza. La stessa che dovrebbe pervaderli quando, al seguito della locale squadra di calcio, vengono apostrofati dai tifosi avversari quali “pecorai”, cioè pastori. Il Vate, nella sua lirica immortale, li chiama “miei pastori” e con quel “miei” vuole trasmettere tutta la stima, l’affetto ed il senso di appartenenza che Egli stesso nutre per quel mondo.

La liturgia Cristiana, peraltro, indica Gesù Cristo quale “Buon Pastore” ed il Suo Vicario in terra “Pastor Angelicus”. Senza sottacere i vari riferimenti al genere ovino: “La pecorella smarrita”, “… pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle..”, “ …come pecora tra i lupi ..” “… solo alcuni pastori che vegliavano le loro greggi…”, fino ai “Consigli Pastorali” attivi presso molte parrocchie.

Anche la nostra lingua ha attinto dalla pecora e dal mondo ovino, per attribuire vari significati in frasi idiomatiche: dal sostantivo, al suo diminutivo, dispregiativo, vezzeggiativo ecc.: “ha preso una pecora” si dice per chi abbia rimediato una ubriacatura; “è una pecora”, si riferisce a persona di carattere mite e bonario; “pecoreccio”, dispregiativo riferito a persona dall’aspetto non proprio elegante; “pecorino”, oltre che il formaggio derivato dal latte di pecora, indica una qualità di vino bianco prodotta in Abruzzo; la declinazione al femminile viene riferita ad una posizione amorosa contemplata nel Kamasutra.

sallustio

Sul gonfalone della Città dell’Aquila campeggia il regale rapace, signore delle vette, anziché la mite pecorella, come sarebbe stato logico. Qualche esemplare, che ha volteggiato sul Gran Sasso, ha offuscato i milioni di capi che hanno brucato l’erba di quei pascoli. Ma tant’è; bisogna prenderne atto, anche se con rammarico. Lo stesso rammarico che, unitamente alla disperazione, disegna il volto del pastorello nella grandiosa tela di Teofilo Patini, riprodotta sulla confezione di un famoso dolce aquilano, in cui il Maestro ha accomunato l’aquila e le pecore, in una scena dell’eterna contrapposizione tra il bene ed il male.

Questo articolo è stato pubblicato sul periodico I Cinturelli, un progetto editoriale nato nel 2010 da un’idea di Dino Di Vincenzo e Paolo Blasini. I Cinturelli, disponibile online e cartaceo, racconta la storia, la cultura, le tradizioni e le leggende del territorio.

 

 

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